Mario Draghi parla poco e sembra quasi che faccia nulla.
Poi, interviene alla Corte dei Conti e, con poche parole, evidenzia il nesso tra burocrazia e corruzione e quello tra burocrazia e immobilismo del Paese; parla al G7 e pone il problema della tutela dell’ambiente come prioritario in termini concreti, non di anti-economicismo velleitario, ma di motore di nuovo sviluppo; prende la parola al Consiglio Europeo e dice una cosa banale e di buon senso, ma a suo modo rivoluzionaria: non c’è motivo per cui l’UE deve comportarsi, coi vaccini, diversamente da Usa e Uk.
I tifosi di Conte si mettano l’anima in pace: non c’è gara. E non basta il tempestivo accredito sui conti di tanti signori impegnati nello shopping non di sopravvivenza natalizio per restituire agio alla competizione.
Il problema però rimane.
Draghi sta lavorando, anziché pontificare, su un Paese ridotto in macerie e non solo economiche, ma prima ancora culturali e di sensibilità.
Ne ho avuto la riprova in questi giorni.
La conferma non mi è arrivata dal suk per le nomine dei sottosegretari, né dal piagnisteo sul perché in quindici giorni non è ancora successo alcun miracolo (come se lo spread sotto 90 punti non equivalesse allo scioglimento del sangue di San Gennaro, peraltro con carattere di minore frequenza).
È nel silenzio tombale su due articoli, uno de Il Fatto; l’altro di Repubblica.
Il primo racconta della impossibilità di formare una commissione di esperti per la riforma fiscale, perché i cattedratici di settore sarebbero tutti coinvolti in un’indagine che, partite nel 2017, nell’aprile 2021 (tre anni e mezzo dopo), probabilmente esiterà in un rinvio a giudizio, e i professionisti sarebbero tutti inclini a favorire l’evasione, piuttosto che a curare gli interessi dell’erario.
Il secondo è l’intervista a Di Maio.
Mi aspettavo che qualcuno prendesse carta e penna e scrivesse indignato che viviamo in un paese in cui vige ancora il principio di non colpevolezza; che a maggior ragione dovrebbe farne uso, di quel principio, il giornale che sostiene quella parte della magistratura che, per difetto di reazione, ha confessato la realtà del sistema Palamara, identico a quello universitario sospettato di illecito e messo sotto processo; che il rapporto tra fisco e contribuente è un rapporto delicato, non di guardie e ladri, ma di ricerca sempre faticosa di un equilibrio sulla misura e la natura dell’onus che deve essere imposto al cittadino, per ragioni di solidarietà, ma che sempre onus rimane e rischia dunque di schiacciarlo; che le idee non sono come le ideologie e possono essere cambiate, ma ciò nonostante non ci si può improvvisare liberali ed europeisti, perché l’essere liberale ed europeista, come del resto socialista o laburista o ambientalista, è il frutto di una sensibilità che si affina con lo studio e negli anni e con l’esperienza, si radica in tessuti sociali e produttivi e non si decide tra il giorno e la notte…
Invece, nulla di tutto ciò.
Silenzio.
Rotto solo dal coro delle prefiche zingarettiane per la chiusura della trasmissione della D’Urso, che i compagni d’un tempo avrebbero salutato con entusiasmo e che francamente non mi pare censurabile neppure ponendomi nella prospettiva estetica suggerita da Marx (Karl, non Groucho).
E questo silenzio induce timore.
Se non riusciamo a romperlo, restituendo dignità e fermento al dibattito pubblico, purtroppo neanche Draghi ce la potrà fare. O meglio: forse potrà lasciarci qualche bellissima riforma, che magari produrrà effetti positivi d’abbrivio o magari ci rimarrà in mano come un gadget tecnologico regalato ad una tribù amazzonica. Ma il Paese non trarrà effettivo giovamento neanche da questo passaggio.
Biden ha ordinato un bombardamento in Siria.
Sui social è scattato, allora, il riflesso alla santificazione di Trump, che in effetti bombe non ha fatto lanciare.
Il fatto che i paladini della destra conservatrice possano rimproverare alla sinistra arcobaleno la prossimità a leader guerrafondai non è, però, un paradosso, né il segno dell’avvento dell’apocalisse. E non è neanche, a mio modesto avviso, la prova che i populismi del mondo incarnano una spontaneità popolare ed umana, che i poteri forti (?) vogliono condizionare con retoriche finte, per soddisfare ambizioni di ultrapotere.
Vale piuttosto a ricordare a tutti, a destra e sinistra, a intellettuali e dursisti, alcune regole semplici e di buon senso, che sono state dimenticate da un mondo troppo abituato al sincretismo delle narrazioni di massa e consumistiche e sempre meno disponibile alla riflessione critica, ma che finiscono per imporsi con la loro evidenza.
La prima riguarda proprio l’uso della forza e di quella militare, in particolare: anche i sistemi democratici più avanzati e le società meglio organizzate si poggiano sull’assunto, spesso lasciato implicito, che la violazione delle regole comuni può legittimare una reazione violenta, da parte di chi si ritenga o sia legittimato a farle rispettare, che sia un soggetto individuale, investito di una qualche funzione di controllo, o un soggetto istituzionale, cui quelle funzioni sono delegate per volontà comune. Tanto più le regole sono accettate e condivise, tanto più l’assunto può essere relegato sullo sfondo. Non può essere tuttavia mai negato, né superato. Fino a prova contraria, insomma, costituisce un assioma di tutte le costruzioni sociali. Anche il mondo delle relazioni internazionali è un sistema di relazioni sociali.
Se si guarda da questa prospettiva, le scelte apparentemente pacifiste di Trump e quelle apparentemente guerrafondaie di Biden cessano di avere quel vestito, che è solo retorico, e ne assumono uno più realistico. Trump ha voluto che gli USA smettessero di svolgere il ruolo di poliziotto del mondo, che hanno assunto fino alla sua elezione. Biden vuole far “ritornare l’America”. Si può discutere se sia giusto oppure non che gli USA svolgano quel ruolo; al limite, se ci convenga oppure non e che alternative ci siano, ma le categorie guerra cattiva/pace buona sono inadatte a leggere il tema. Servono solo a una narrazione da politicamente corretto, che equivale a politicamente inutile.
Personalmente, visto che in assenza di poliziotti può instaurarsi una tendenza anarcoide di tipo violento, che a livello di relazioni internazionali vuol dire rischio di focolai di guerra vera in alcune parti del mondo, con alterazioni anche dei flussi migratori non controllabili; considerato che gli altri concorrenti al ruolo di poliziotti mi danno minori rassicurazioni, mi auguro che – fino all’avvento di un nuovo e radioso ordine mondiale – gli USA continuino a fare qualcosa, piuttosto che guardare al loro orticello.
L’altra regola che la vicenda siriana di ieri ricorda è che fenomeni complessi non possono essere letti semplicisticamente e, quindi, monocularmente.
Trump non può essere considerato buono o cattivo solo perché non ha fatto le guerre. Il fenomeno Trump, che le vicende post 6 gennaio dimostrano non riducibile alla psichiatria del suo promotore, è un fenomeno complesso: incarna la tentazione delle società ricche di replicare, a livello di massa, l’atteggiamento che i loro esponenti di punta hanno assunto, a livello individuale, da ormai due generazioni (Lasch) e che si concretizza in una progressiva chiusura in ambienti ristretti e controllati, distaccati dal resto del mondo, se non per cordoni ombelicali di aspirazione di ricchezze, e regolati da regole sociali e principi molto selettivi e di auto-conservazione. È inevitabile che questa tentazione si volgarizzi, nelle forme, al diffondersi. Insomma, che appaia come populismo razzista a livello di massa quello che nei salotti buoni è snobismo ed eleganza. È altresì inevitabile che proprio le punte più avanzate della società, quelle che hanno sublimato a livello personale il fenomeno, lo stigmatizzino come inaccettabile, anche culturalmente, quando lo vedono replicarsi in grandi numeri e che questa stigmatizzazione venga percepita come inaccettabile ed offensiva da chi non capisce perché il milionario può rinchiudersi nel suo parco circondato da pareti inaccessibili e il proprio paese non possa farlo, in un momento di solidarietà nazionale.
Il piano sul quale valutare la bontà/cattiveria di Trump come fenomeno politico (almeno uno di quelli sul quale valutarla) è, però, questo.
E con l’avvertenza che qualunque decisione si voglia prendere su questo piano, non incide sulla valutazione, comunque negativa, delle modalità con le quali ha usato la bugia e la violenza anti-istituzionale come strumenti di politica in ambito democratico.
Personalmente, ritengo che, quella tendenza che Trump incarna, sempre pericolosa, possa essere letale per l’intera umanità, in un momento in cui si assiste al verificarsi di due fenomeni incontrollati: la progressiva concentrazione di ricchezza solo finanziaria, talvolta anche extra-statuale (vedasi cripto valute), in pochissime mani, da una parte; il fiorire di forme di intelligenza artificiale che, ove non suscettibili di attribuire autonomia ai pc, potranno comunque essere utilizzate per creare ultra uomini (come lasciano temere gli esperimenti sempre troppo poco verificati nelle finalità effettive di Musk sui connettori cerebrali), dall’altra parte.
Ma la pericolosità non può essere né denunciata, né combattuta con analisi manichee e contrapposizioni da stadio.
I nostri giornali e i nostri giornalisti sono disabituati e ci hanno disabituato alla riflessione.
È bastato, allora, che Draghi imponesse un minimo di silenzio alla grancassa di Palazzo Chigi e il silenziatore della sua moral suasion agli oppositori (in effetti, sostanzialmente ridotti al tentativo di Rai3 di stabilire un improbabile parallelismo tra le posture della Meloni e quelle di Sharon Stone), perché tutto il circo giornalistico, Travaglio compreso, smettesse di essere routilante e, quindi, calasse sul paese una sorta di strano ebetismo, diviso fra i commenti al Festival (l’unico superstite rito di unità nazionale, come scriveva l’anno scorso Veneziani) e quelli, con minor coinvolgimento, alle dimissioni di Zingaretti.
Mi pare, però, che continuino ad accadere delle cose.
Alcune mi hanno colpito, perché meriterebbero qualche riflessione, almeno dal mio punto di vista.
Mattarella rimanda le elezioni amministrative; il Censis certifica il tracollo dei redditi degli avvocati, soprattutto giovani, donne e meridionali; il procuratore Creazzo, di Firenze, propone e ottiene che sia divelto l’organo di governo dell’Università di Firenze, per brogli nei sistemi concorsuali a Medicina.
Nessuno di questi fatti fa notizia; nessuno buca la soglia dell’attenzione pubblica. Sicuramente, sorprendono meno delle lacrime e dei vestiti di Achille Lauro, quello nuovo.
Per carità: chi ha risolto la crisi di governo in difetto di una chiara maggioranza parlamentare senza sciogliere le camere, non poteva certo contraddire sé stesso, in piena terza ondata. E che i baroni universitari siano corrotti e gli avvocati una manica sempre più larga di scappati di casa sono ormai addirittura luoghi comuni del nostro percepito del paese.
A ben vedere, però, tra la gente normale, – quella che malgrado l’emergenza, si sveglia tutti i giorni cercando di conservare l’equilibrio della quotidianità; la propria azienda; un minimo di dignità – quei fatti, per come si sono svolti, per le loro cause, per quello che significano, dovrebbero suonare come gli allarmi anti-bombardamento nel silenzio della notte. E indurre, sollecita, una reazione, una presa di coscienza, una qualche forma di ribellismo, magari semplicemente sotto le sembianze del dibattito e dell’interrogativo.
Le elezioni sono il massimo momento di democrazia. Si deve senza dubbio alcuno tenere conto dell’avanzamento della pandemia. Non si può tollerare, però, che non se ne discuta, e si prenda semplicemente atto, che sono sospese e potrebbero rimanerlo sine die. Mi si potrebbe obiettare che, dato atto della preminenza della pandemia, si tratterebbe di discussione tra sofisti, fine a sé stessa. Ma non è così: sarebbe stata questa l’occasione per discutere, piuttosto che soltanto delle alchimie per la composizione delle camere, per esempio, del profondo legame che le nostre leggi stabiliscono con la fisicità del momento elettorale. Non si tratta di un legame necessario. Lo dimostrano ciò che accade in altri sistemi, sicuramente democratici, e se si vuole, anche il sentire che la piattaforma Rousseau ha imposto ad una parte importante del nostro elettorato e financo ai riti istituzionali. Si tratta, però, di un legame che può imporre distorsioni, tanto più in un paese di vecchi, vecchi soli e di forte emigrazione interna non sempre registrata all’anagrafe. Si potrebbe dunque pensare a tutelare la democrazia, anche attraverso il voto a distanza.
Il sistema della selezione della classe dirigente apicale del paese mostra da anni delle crepe, che preludono al suo fallimento. Da tempo, si susseguono gli scandali, suscitati da inchieste penali, giornalistiche o semplicemente giudiziarie, avviate dalla reazione degli interessati, sui concorsi nelle università, le nomine in magistratura, le selezioni dirigenziali nella pubblica amministrazione e nelle partecipate pubbliche. E la scuola è ormai un luogo di reclutamento per assedio: viene reclutato chi ha più pazienza ad aspettare che la cittadella allenti le difese ed apra le porte. Non si può rimanere insensibili a questo degrado. E la reazione non deve nascere per conato giustizialista, di reazione all’iniziativa di un magistrato. Dovrebbe nascere, ed essere urlata, perché questo metodo di selezione della classe dirigente non risponde alle esigenze del paese; perché distrugge il capitale umano della nazione, affidando la gestione di gangli vitali per il paese (più di quelli per la produzione del vaccino autarchica, perché così si sarebbe detto un tempo) a persone delle quali sono incerta la capacità e certe la tara reputazionale e conseguentemente la scarsa autorevolezza; perché, distruggendo il capitale umano dell’oggi, pregiudica la possibilità che se ne generi di buono, o almeno di migliore, nel futuro. È anzi un paradosso che l’azione moralizzatrice di alcuni ambiti si possa pensare di affidarla, nell’inerzia della politica, alla magistratura, i cui vertici sono stati colpiti da vicende analoghe.
Bisognerebbe, invece, chiedersi e discutere pubblicamente se la selezione per concorso abbia ancora un senso e non sia più ragionevole sostituirla con forme di cooptazione, che importino severi controlli di responsabilità per il cooptante e rischio di esclusione successiva per il cooptato.
Che gli avvocati siano poveri, soprattutto se sono giovani, meridionali e donne, non è un problema solo di quegli avvocati. Vuol dire, senz’altro, che il nostro sistema giustizia è zoppo. Non c’è e non ci può essere giustizia in un Paese in cui tutti gli avvocati non siano in grado di garantire – attraverso la loro autonomia e la loro dignità economica – l’indipendenza di giudizio, l’approfondimento e l’aggiornamento culturale, la schiena dritta che sono indispensabili per esercitare una professione che (lezione dimenticata dei costituenti) può costituire l’unico efficace contro-potere attivo (e non di difesa, come sarebbe invece l’immunità parlamentare) al potere giudiziario.
Che gli avvocati poveri siano donne e giovani vuol dire, poi, che viviamo in un paese diseguale, che non intende porre rimedio agli scempi sociali che ha perpetrato, spesso in nome di finti progressismi; soprattutto, che viviamo in un paese che non ha strumenti per reagire in futuro alla sua situazione, perché sta tarpando le ali, svilendo, umiliando chi dovrebbe costituire il serbatoio di intelligenza e progettualità per il futuro.
Che ci siano anche avvocati poveri, infine, vuol dire che il paese è afflitto da una piaga verminosa e inguaribile: schiere di laureati che non riescono a ottenere remunerazione, né a trovare una adeguata collocazione sociale. È uno spreco enorme di risorse umane; è la prova provata che sono rimasti mal investiti gli enormi importi spesi per la loro educazione; è la prova che si è avviata una selezione viziosa, che fa rimanere nel paese chi, per mille ragioni, anche non imputabili a lui, comunque non sa e non riesce a trarre frutto della ricchezza più alta di cui una persona può disporre: la competenza. Bisognerebbe allora cominciare a chiedersi, secondo me addirittura urlando e piangendo, come i cori delle tragedie greche, che s’ha da fare, per invertire questa rotta.
Perché Draghi da solo; Draghi con Franco, Cartabia, Colao, Giovannini; Draghi in silenzio; non bastano.
Ma c’è Achille Lauro che canta con Fiorello.
Travaglio in gramaglie.
Renzi che monologa.
Bettini che fa gli schemi del sudoko.
Elettroencefalogramma piatto.