Il senso di invincibilità emerge spesso in contesti in cui si verificano comportamenti devianti.

La devianza è comunemente descritta come ogni atto o comportamento, anche solo verbale, di una persona o di un gruppo di persone che viola le norme di una collettività e che di conseguenza va incontro ad una qualche forma di sanzione: si tratta dunque di comportamenti che non sono consoni alle regole sociali. Tuttavia è necessario tener presente che le risposte della collettività ad uno stesso atto variano nello spazio e nel tempo: per questo motivo di parla di relatività dell’atto deviante in relazione a tre fattori:

  1. contesto storico/politico/sociale;
  2. ambito geografico;
  3. situazione.

In soggetti devianti, soliti a compiere azioni che violano la comune norma di civile convivenza è spesso comune osservare il senso di onnipotenza che annida nella loro personalità. L’onnipotenza soggettiva fa credere fermamente nella realizzazione dei propri desideri e dei propri pensieri fantastici. Alcune persone possono pensare di essere “speciali” o superiori ad altre ed esprimono in modo diverso le loro fantasie di idealizzazione di per sé irrealistica ed onnipotente. Travolti da queste emozioni e sensazioni, spesso supportati solo da un contesto di vita difficile, precario, ai limiti dell’illegalità o addirittura nell’illegalità, mettono in atto tendenze illecite assecondando la propria convinzione di avere il mondo in pugno e uscire vincitori dalla sfida contro l’autorità.

Da esperienze di lavoro pregresso presso associazioni che si occupano di carcere e detenzione riporto un episodio in cui mi viene riferito da un’utente ormai ex-detenuto, il quale mi riporta una delle sue imprese “no, ma io ero sicuro di potercela fare, avrei corso veloce, nessuno era più veloce di me e quella volta lì potevo passare da una grondaia all’altra. Bastava solo saltare in lungo! E poi.. era notte quindi non mi vedevano bene, perlopiù faceva freddo ed ero ben coperto.. solo io potevo farlo, avevo messo i soldi in una busta che però poi si è rotta ed ho perso tutti i soldi!”. Alla mia affermazione “beh nemmeno Lupin si organizza così..”, con calma e rammarico mi ha risposto “sono stato proprio sfortunato.” Poi continua: “io ero sicuro delle mie cose. Bastava che quello”- riferendosi ad un compagno di merenda- “apriva la cassa e prendeva i soldi. Invece quello non c’ha guardato nella cassa e mi ha detto che tanto lì non c’erano i soldi perchè nessuno tiene i soldi in cassa. A quel punto sono tornato indietro, ho aperto la cassa e i soldi c’erano! Li ho presi, ma intanto sono arrivati i carabinieri. Io sono scappato, ho corso veloce, mi sono tolto il giubbotto e sono salito sull’autobus, ma quelli mi avevano visto, mi sono venuti dietro, hanno fermato l’autobus e mi hanno preso.” Continua “ oh vedi che io non mi ero mica drogato prima di andare eh! Perchè dovevo essere lucido. Quei soldi mi servivano per comprare qualcosa, e poi sono finito in galera. Un’altra volta.” (Testimonianza A.F.). Emerge in tali contesti il senso di invincibilità che si scatena in conseguenza ad un imminente pericolo, esso implica una vitalità che esplode mettendo in atto una reazione, un comportamento estremo, ma come conseguenza di un evento. Questa azione dura il tempo dell’emergenza nel quale il soggetto non sente il bisogno di bere, mangiare o dormire, si sente instancabile, non avverte la fatica e non subisce la pressione della paura. Le azioni risultano essere imprevedibili e il senso di invincibilità permane. A volte, alla fine, quando l’uomo prende coscienza delle sue azioni, risulta sorpreso di se stesso. Il senso di invincibilità tende ad estinguersi quando l’evento viene risolto, ma nel caso in ciò questo non avviene, si manifesta in tutta la sua forza attraverso comportamenti patologici e disfunzionali.

Siamo in piena emergenza sanitaria, viviamo oscillando tra la paura di contrarre il virus e l’incertezza generale. E una condizione nuova, alla quale l’uomo non è preparato, condizione che porta al cambiamento delle abitudini personali provocando inevitabili conseguenze sul piano sociale, relazionale, emotivo e psicologico.
Attenzione focalizzata sulla scuola: scuola chiusa/scuola aperta, dad si, dad no. Cresce la preoccupazione delle mamme riguardo a tale argomento. Ma quali sono le conseguenze alle quali si giunge causate dalla chiusura di un tale sistema?
Alcuni sostengono che la chiusura della scuola sia condizione necessaria e sufficiente affinchè il virus non si propaghi o che si propaghi più lentamente. Altri sostengono che i contagi non si sviluppano a scuola in un numero sufficientemente elevato di casi. Atri ancora, sono concentrati sulle difficoltà che un’eventuale dad provoca sull’organizzazione della famiglia: si verificano casi in cui il bambino, a seconda della necessità viene seguito dalla mamma, dalla zia, dal papà o anche dalla babysitter durante la lezione on-line. Qualcuno sottolinea le difficoltà ad usare gli strumenti digitali, qualcun altro manifesta la difficoltà ad avere lo strumento digitale o la linea internet o anche la necessità di avere più strumenti da impiegare in momenti simultanei (chi ha più figli in dad). Tuttavia, in pochi si chiedono quali sono le dinamiche personali che si attivano in tali contesti e quali sono le ripercussioni psicologiche nei contesti sociali in un futuro non troppo lontano.
L’isolamento è sempre stato fonte di situazioni problematiche, non ha mai portato ad uno stato di benessere psicologico, e oggi, ad un anno dall’inizio della pandemia, tale condizione è destinata a peggiorare.
Sono statisticamente aumentati i casi di separazione tra conviventi, di violenza e dipendenza, è aumentato la tendenza all’abuso e all’isolamento, è aumentato l’uso/l’abuso di psicofarmaci.
La chiusura della scuola indica un sistema che non funziona, la scuola è scuola e si fa a scuola: una società priva di scuola è una società senza cultura e incapace di creare relazioni stabili, sane e durature nel tempo. La dad non può sostituire ciò che la scuola è: integrazione, scambio, relazione, speranza, sogni, risate ed emozioni, e non solo apprendimento di didattica e nozione. La dad mette crea situazioni nelle quali i bambini soffrono la condizione di vedere i propri compagni senza realmente interagire con loro; i ragazzi in fase adolescenziale usano i dispositivi tendenzialmente per la lezione, ma anche per scopi personali oltre gli orari precedentemente concordati con i genitori; i genitori con più figli devono seguire contemporaneamente più lezioni in dad su più dispositivi, inoltre capita spesso di vedere famiglie con bambini più piccoli che distraggono i fratelli grandi, i quali a loro volta vengono richiamati per porre maggiore attenzione alla didattica. Situazioni difficili per quelle famiglie che non hanno aiuti esterni e che in qualche modo si trovano a gestire tali situazioni.
Aumenta lo stress, anzi il disstress, la sofferenza psicologica di chi giorno dopo giorno deve affrontare le discussioni tra fratelli, tra genitori, tra generazioni.
Il livello di sofferenza si alza, le persone si chiudono in se stesse, emergono manifestazioni di disagio, comportamenti violenti e violenze tra chi è costretto a vivere a stretto contatto con chi non si vuole vicino. Il se’ si frammenta e la persona soffre la condizione di profondo malessere.
Emergono inoltre una serie di disturbi psicologici ancora molto sottovalutati: accanto all’ansia, agli attacchi di panico e alla depressione, si presentano disturbi alimentari, disturbi psico-somatici e ritiro sociale. Quest’ultimo innesca una serie di meccanismi che potrebbero portare al completo e totale isolamento della persona deteriorando tutte le funzioni psichiche e invalidando la vita della persona stessa.
E’ una condizione assolutamente necessaria per la sopravvivenza dell’uomo quella di chiudere le scuole? Non è proprio possibile trovare una soluzione alternativa che tenda a connettere diversi livelli di condizioni? Le persone si sentono sole, spesso lo sono, ma di sicuro lo diventano se private degli spazi vitali.

Aneddoti, consigli e curiosità. Per l’Inaugurazione del nostro nuovissimo canale Youtube, abbiamo intervistato Simone Golia: giornalista della Gazzetta dello Sport e GianlucaDiMarzio.com. Tra i tanti argomenti trattati, sono emersi validi e utili consigli per giovani “aspiranti giornalisti”:

“Mi sono sempre ripetuto che un giornalista deve avere tre qualità fondamentali: coraggio, umiltà e sensibilità – ha dichiarato Simone Golia – . La prima è importante per accettare nuove sfide e continuare il proprio percorso di crescita. La sensibilità è ciò che sconfigge la banalità: un giornalista deve avere la consapevolezza di ciò che sta scrivendo. Ogni articolo, deve essere scritto con la massima sensibilità nei confronti dell’argomento trattato. Infine l’umiltà, perchè non bisogna mai sentirsi arrivati. E’ necessario avere sempre un po’ di curiosità e voglia di imparare…”

Di seguito, l’intervista completa al giornalista Simone Golia:

GOOGLE CHROME – La chiamano “Navigazione in Incognito” e si abilita con una sequenza di tasti (Ctrl + Maiusc + N) o semplicemente dal menù in alto a sinistra “Nuova Finestra di Navigazione in Incognito”. Per molti informatici NERD è conosciuta come “Modalità Porno” poiché non memorizza cronologia, immagini e link sul pc. Ed è questo il punto. Cosa vuol dire in incognito? A chi è riferito? Cerchiamo di fare un po’ di chiarezza sull’argomento con qualche piccola nozione di privacy e relativi argomenti.

SOLDI E PUBBLICITA’ – Come sempre nel Web ci si imbatte in queste 2 parole magiche dal significato infinito. Procediamo con ordine e con un esempio diretto: se cercate – su google dal PC – un servizio, un medico o informazioni su un argomento visualizzerete le pubblicità associate e correlate anche sul vostro cellulare. Provare per credere. Com’è possibile tutto questo? Si chiamano Cookies e non sono i famosi (e buonissimi) biscotti. In parole molto semplici: tutto quello che scriviamo sul motore di ricerca google o su siti dove abbiamo accettato i Cookies viene memorizzato ed analizzato per fornire contenuti pubblicitari mirati. Perciò, se avete cercato un modello di scarpe della marca X sul vostro PC e avete lo stesso account google anche sul cellulare vi ritroverete annunci “mirati” della marca X o di e-commerce che vendono la marca X. Tutto questo è geniale o diabolico? Dipende da quale punto di vista si osserva.

LA LINEA DI CONFINE – Sottilissima, poco chiara e poco regolamentata. Già, poco regolamentata. Chi ha scritto il GDPR – seppur con nobili intenzioni – ha tralasciato enormi buchi ed evidenziato come la mancanza di informazioni tecniche sia evidente. Un po’ come nel film “Prova a prendermi”: se vuoi combattere i falsari, ingaggiane uno abile nella tua squadra. Per le disposizioni sul GDPR non è successo e si è ottenuta una cura per i sintomi e non per le cause. Tuttavia, quest’argomento sarà sviluppato successivamente nel KorosMagazine. Tornando alla linea di confine tra geniale e diabolico, l’interesse generale del navigatore deve essere comunque tutelato, a prescindere dalle intenzioni o dai soldi! Il termine “Navigazione Anonima” è sicuramente fuorviante o infelice in qualsiasi contesto che implichi una memorizzazione esterna delle tue ricerche.

USA – Un paese che mi sorprende sempre. Questa volta in senso positivo. A Giugno del 2020 un gruppo di cittadini statunitensi ha formato una Class Action sostenendo che Google Chrome avrebbe archiviato le loro informazioni personali anche durante la Navigazione in Incognito. Questa causa porterebbe 5mila dollari ad ogni utente del gruppo per un totale di 5 miliardi di dollari (fonte Reuters). Google, ovviamente, si difende affermando che i dati non vengono salvati sul dispositivo di utilizzo ed ha chiesto l’archiviazione.

Lucy Koh – E’ il nome del giudice della corte distrettuale di San Jose che ha respinto la richiesta di archiviazione con la seguente motivazione:

Google non ha informato gli utenti che Google Chrome si impegna nella presunta raccolta di dati mentre l’utente è in modalità di navigazione in incognito

A breve ci sarà un processo miliardario. Nel frattempo, è comparso il seguente avviso all’apertura della finestra in incognito:

Prima di continuare
Google usa i cookie e altri dati per fornire, gestire e migliorare i nostri servizi e annunci. Se accetti, personalizzeremo i contenuti e gli annunci che visualizzi in base alle tue attività su servizi Google quali Search (motore di ricerca), Maps e YouTube. Abbiamo anche dei partner che analizzano come i nostri servizi vengono utilizzati. Fai clic su “Ulteriori informazioni” per rivedere le tue preferenze oppure visita la pagina g.co/privacytools in qualsiasi momento.

Si attendono aggiornamenti a breve e secondo i rumors si fa sempre più largo l’idea di un patteggiamento con un rimborso diretto.

Ho visto di recente il film V come Vendetta. Ci sono aspetti molto profetici: un politico che raggiunge il potere grazie ad una emergenza sanitaria e che lo mantiene mentendo alla popolazione. Alla fine, nel film il regime crolla quando si diffonde la consapevolezza delle menzogne diffuse a rete unificate.

Io credo che sia il Governo Europeo che il sistema politico Italiano siano arrivati al capolinea. L’Europa ha sbagliato in modo clamoroso i contratti con le aziende che producono i vaccini. Contratti assolutamente penalizzanti sono stati firmati a discapito dei cittadini Europei da funzionari non all’altezza di questo compito delicato. La responsabilità dovrebbe ricadere non solo sull’inetto burocrate che li ha firmati ma anche sul Presidente Europeo, la Ursula von der Leyen, che l’ha scelto. La responsabilità, secondo me, dovrebbe essere non solo civile ma anche penale sia per le centinaia di migliaia di morti in più che abbiamo avuto per mancanza di vaccini sia per le assurde limitazioni della libertà che sia costretti a subire e sia, soprattutto, per aver fatto naufragare, forse definitivamente, ogni idea di Europa unita. L’Europa ha fallito e perfino un pessimo premier come Boris Johnson ha giganteggiato nei confronti dei politici europei. Un’Europa così non ha senso alcuno.

L’Italia è riuscita nell’impresa di riuscire a fare perfino peggio dell’Europa. E’ riuscita infatti a far perdere ogni fiducia al cittadino medio. Abbiamo avuto incompetenti al potere. Ad esempio Nature ha criticato il CTS per l’emergenza coronavirus perché mancavano competenze necessarie per affrontare questa emergenza. Vedasi

Inoltre, vari aedi del regime, ci hanno raccontato, imperterriti, nei talk show, balle terrificanti sul fatto che Astrazeneca provocasse reazioni avverse solo in un numero limitato di casi. Adesso che l’evidenza è emersa, i cocci sono rotti. Manca totalmente la fiducia necessaria per la vaccinazione di massa. I danni sembrano enormi e non recuperabili. I politici avrebbero dovuto dire chiaramente la verità: Astrazeneca è un vaccino ancora sperimentale con molte controindicazioni ma l’alternativa, il Covid, sarebbe per molti Italiani, soprattutto quelli più anziani e fragili, decisamente peggio. Nascondere questi fatti così palesi è servito solo a disorientare ancora di più gli Italiani. Se ci hanno nascosto questo, cos’altro ci avranno mai nascosto? Al di là di come stiano effettivamente le cose, l’Agenzia del Farmaco Italiana non è apparsa agli occhi degli Italiani una agenzia indipendente e questo è un danno gravissimo e permanente. Non sarà possibile far ripartire la campagna vaccinale. La pandemia continuerà ad imperversare. Dopo la terza ondata appena iniziata avremo la quarta e la quinta il prossimo anno. Se questa è l’inevitabile prospettiva, che senso ha continuare a uccidere l’economia? Che senso ha la politica di regioni arancioni, rosse e bianche? Solo per guadagnare qualche mese di non vita? Tanto valeva che l’anno scorso i nostri politici avessero deciso di fare come la Svezia. Avremmo avuto un paio di mesi terribili in cui si sarebbero concentrati tutti i morti che abbiamo avuto in questo anno, ma almeno avremmo continuato a vivere e non avremmo distrutto la nostra economia. Abbiamo avuto lo stesso numero di morti, non abbiamo risolto niente e siamo pieni di debiti.

Non è pensabile che i politici che, a prima vista, hanno totalmente sbagliato la strategia per contenere la pandemia non debbano essere sottoposti a un giudizio di una commissione d’inchiesta che valuti le responsabilità civili e penali per i danni causati dalla loro inettitudine. I danni inflitti al nostro paese non possono essere ignorati. Chi ha sbagliato deve pagare.

Ai tempi del recovery fund si fa un gran parlare d’innovazione mentre si parla molto meno di formazione e scuola. Sostanzialmente l’unico intervento effettuato a favore (??) della scuola è stato l’acquisto di banchi a rotelle per 119 milioni di euro al fine di scongiurare il sopraggiungere della seconda ondata di pandemia. Si è investito poco o punto, sia a livello di scuola che a livello di università, sia sugli aspetti contingenti (ossia come fare una didattica passabile al tempo del lock down) che sugli aspetti prospettici (ossia come impostare la didattica negli anni futuri). Il risultato è stato drammatico come ho potuto rendermene conto facendo lezione questo semestre. Gli studenti del primo anno sono molto fragili, molto più fragili di quello che mi ricordassi. Mia impressione fallace o fragilità determinata dall’ultimo anno al liceo passato in DAD? Forse l’esame di maturità rappresenta veramente uno spartiacque, quasi una iniziazione. Un anno importante come quello della maturità spazzato via dalla pandemia ha avuto conseguenze gravi e permanenti. Sicuramente, invece di spendere in banchi a rotelle si sarebbe dovuto investire per evitare il ripetersi di questo grave contrattempo. Ad esempio si sarebbero dovuto dotare gli insegnanti sia di competenze che di strumentazione atta all’insegnamento a distanza. Si sarebbe dovuto investire per ridurre (ipoteticamente annullare) le differenze socio-economiche fra gli scolari e dotarli tutti di connessione internet efficiente e di pc. Invece abbiamo seguito la più facile, ma totalmente fallace, l’illusione che si sarebbe potuto evitare la DAD solo rendendo mobili i banchi o poco di più.

Invece sono abbastanza convinto che il Covid sarà un momento di svolta modificherà profondamente la didattica soprattutto quella rivolta a studenti dei licei e dell’Università. E quindi sarebbe opportuno riflettere su quale sia la migliore strategia per affrontare questo cambiamento di paradigma. A livello universitario penso che il sistema misto sarà quello a cui si convergerà. Un po’ di studenti dovrà rimanere in presenza. Gli studenti in presenza sono necessari sia per far avere il feedback al Prof e sia per farlo sentire meno pirla (parlare da solo alla lavagna è veramente alienante). Gli altri studenti possono sentire connessi ma con la possibilità di intervenire. Sarebbe doveroso far capire inoltre agli studenti che sarebbe opportuno che la telecamera rimanesse sempre accesa (altrimenti il docente avrà sempre il dubbio che stia parlando a sedie vuote). Inoltre le lezioni dovrebbero essere registrate e conservate in archivio. Sicuramente questo significa che si dovrebbero cambiare paradigmi: in 60 ore di lezione sicuramente può capitare un congiuntivo sbagliato, una consecutio temporum errata, una sbavatura più o meno grave, ma senza comportamenti follemente inquisitori, sarebbe un modo per valutare, finalmente in modo abbastanza oggettivo, la quantità e la qualità di didattica effettivamente fatta da un docente.

L’altro problema da risolvere è come creare il “gruppo” che è la base di ogni apprendimento scolastico e chela DAD sicuramente cancella. La mia idea per questo anno è far partire iniziative collegate ai corsi che insegno. Agli studenti del primo anno di Ing Informatica la mia idea è quella di stimolarli affinché creino strumenti di Artificial Intelligence da affiancare alla didattica tradizionale. Agli studenti della magistrale d’Informatica la mia idea è spingerli a progettare un videogioco per spiegare tramite gamification cosa siano la blockchain e le criptovalute. Ma le idee e le iniziative possibili da proporre potrebbero essere infinite. Una sola cosa è chiara, che la didattica del covid e del post covid non potrà più essere quella tradizionale. E’ forse uno dei pochi momenti storici in cui si deve applicare la massima di Mao “che cento fiori sboccino insieme, che cento scuole contendano”. Con quello slogan Mao invitava poeti, intellettuali, scrittori, scienziati, artisti e tutta l’intellighenzia a ripensare la rivoluzione, per contribuire a quello sviluppo creativo che avrebbe dovuto caratterizzare la versione maoista del marxismo. Ogni cittadino era sollecitato ad esternare ogni problema, in un clima di collaborazione tra popolo e quadri del PCC, al fine di arrivare ad un profondo cambiamento culturale, artistico, scientifico e politico. Ecco qui con la DAD siamo in una situazione simile. Occorre che si confrontino mille idee, mille possibilità. L’unica cosa certa è che non si può rimanere fermi sognando che tutto possa ritornare come prima. Pensare che la didattica del futuro possa andare avanti come se l’esperienza della DAD dell’era del Covid non fosse mai esistita, significherebbe commettere lo stesso errore del Congresso di Vienna quando i vari Metternich pensavano di poter proseguire con l’antica politica come se la Rivoluzione Francese e Napoleone non fossero mai esistiti. Occorre invece il coraggio di intervenire con decisione e fantasia. Solo i Paesi che sapranno farlo, avranno saputo ben investire nel futuro.

Pare che l’Italia, in generale, e la sua sinistra, in particolare, stiano ricostruendo la loro identità e addirittura la loro tensione identitaria verso il futuro, mediante un forte richiamo transtiberino.
Entrambi gli uomini che la provvidenza ha inviato – uno a raddrizzare le sorti del paese, l’altro a rabberciare i cocci del maggior partito (polo di aggregazione?) della sinistra- infatti, hanno citato Papa Francesco nei rispettivi discorsi di insediamento. E nessuno dei due lo ha fatto per mero ossequio formale. Anzi, tutti e due hanno utilizzato l’autorevolezza papale per rinforzare passaggi fondamentali della personale proiezione programmatica.
La circostanza non è di facile lettura.
Draghi e Letta sono dichiaratamente cattolici. Non sono però clericalisti.
Non hanno neanche bisogno di invocare la benevolenza delle gerarchie ecclesiastiche, perché sanno che ne godrebbero, come direbbe Totò, a prescindere.
Non possono pensare che, nel momento storico di massimo travaglio all’interno della Chiesa cattolica e della Chiesa italiana in particolare, il richiamo alle parole del Papa possa valere come strumento di pre-orientamento del mondo cattolico.
Non hanno neppure evocato l’insegnamento dell’erede di Pietro su parole d’ordine propriamente cattoliche, avendolo anzi fatto Draghi circa l’ambiente; Letta circa il patto intergenerazionale; insomma, su temi e valori universali e trasversali.
L’idea che mi sono fatto è che si tratti di un messaggio di marketing politico, secondo strategie di comunicazione che funzionano almeno dalla notte di Natale dell’800 d.c., ma che hanno la dimensione e costituiscono la prova di grande sensibilità culturale.
Papa Bergoglio è tanto Pop(e) quanto lo era Wojtyla. Sono però icone di due parti diverse e, forse, contrapposte dello stesso mondo.
Evocare quella bergogliana vuol dire, allora, chiarire, per Draghi, di non essere l’incarnazione di un potere finanziario da quinta colonna, alla Marcinkus, a coloro i quali – soli (perché Salvini non ha più le unghie e Berlusconi non ha interesse) – avrebbero potuto manifestare disagio, almeno culturale, per un suo strapotere, che effettivamente si sta mostrando incontrastato anche a livello mediatico, pur senza bisogno degli eccessi di Casalino; per Letta che se gli vedranno utilizzare uno stile democristiano (che ha subito rivestito di riformismo, ma che va tradotto in attenzione alle reti di potere e di relazione pre-esistenti), non potranno comunque rimproverargli sostanza di mediazione, perché del mondo cattolico prende e sposa solo il progressismo.
Mi conforta, tuttavia, che questo messaggio di marketing paia rivestire una sostanza perlomeno di chiarezza, in entrambi i casi.
Mi pare lo si possa dire per Draghi, che – lemme lemme, tomo tomo – ha avviato un’operazione di ri-articolazione del sistema di potere, che ha innescato il tracollo del grillismo e del franceschinismo (vero sconfitto delle dimissioni di Zingaretti) e la crisi del contismo, del dimaismo e del salvinismo; la riassegnazione delle ambasciate; un nuovo fermento intorno alla discussione (vera) sul sistema giustizia; nuove abitudini sul rispetto dell’architettura delle fonti normative (e dunque dei poteri) disegnata dalla costituzione.
Ho la sensazione che sarà così anche per Letta, che ha cominciato il suo percorso lanciando la sfida da parole ed espressioni e battaglie massimamente divisive e, quindi, identitarie, quali quella sullo ius soli; sull’equità fiscale; sul dialogo con i 5Stelle (che quando diventa dialogo presuppone diversità).
Mi auguro che questo inaspettato fenomeno produca analoghi smottamenti culturali e di chiarezza anche a destra o, per lo meno, in quella parte di quel mondo che si ispira ai valori liberali.
A ben pensare, infatti, tanta parte di quello che è accaduto in Italia negli ultimi vent’anni non è colpa della scarsa alternanza politica: la ricerca e la prassi dell’alternanza su quel piano hanno, anzi, generato una polarizzazione, che è sfociata progressivamente nello scontro tra i populismi.
È colpa di una ridottissima possibilità di alternativa culturale, che ha prodotto un conformismo sostanziale nel mondo della cultura, prima delle espressioni, poi dei pensieri, infine dei metodi.
E questa situazione non può essere risolta rilanciando parole d’ordine alla base, ma rivitalizzando il discorso intellettuale.
E a me pare ce ne sia tanto più bisogno, quando si ponga mente al fatto che la pandemia ha accentuato sì le diseguaglianze, ma anche chiarito che libertà e tutela dell’individuo non sono parole vuote di significato, neppure nel mondo ultraconnesso e ultra consumista che viviamo.

Pare che sul palcoscenico della politica italiana sia salita, questa volta di ritorno, un’altra personalità diffusamente stimata e seria.
Dunque, la scelta di Renzi, di aprire una crisi al buio, e quella di Matterella, di chiuderla di imperio, hanno in effetti avviato degli smottamenti, che sembrano sempre più inneschi di valanga.
Nessuno può ragionevolmente sapere cosa accadrà. Né se ciò che accadrà sarà nel verso del meglio o in quello opposto.
Forse rimane certo solo il termine del nuovo redde rationem: la scadenza della legislatura, se Draghi riesce davvero a mantenere la promessa di una vaccinazione massiva rapida, che allenti la tensione sul paese.
Mi pare di poter dire, però, che le parole di Letta, quelle parole cui lui stesso dice di attribuire enorme importanza, riechieggiano un vento di tormenta: non cercherà l’unità, idolo posticcio di una sinistra sempre divisa, forse per la paura indotta dal rischio di quel baratro concettuale generato dall’equivoco fondativo denunciato da Cacciari; cercherà la verità dei rapporti interni. Che non è proprio un invito alla serenità.
La provvidenza mette la nostra classe dirigente su percorsi che le sue iniziative non presagivano neanche e dà al paese il brivido intenso della serindipità…
Si cerca stabilità, si trovano costruttori, che han ben capito che in Italia nulla si può costruire, se prima non s’abbatte, perché la costruzione stratificata ha prodotto l’eterna bellezza di Roma, buona per le fotografie, ma che olezza di marcio.

Sono un grande estimatore di Enrico Letta.
Non capisco, però, il senso che potrebbe avere, per lui e per il partito, l’operazione che lo richiami alla segreteria del PD.
Non può essere una manovra per il recupero di consenso del partito nel paese, perché Letta non ha il carisma del leader (pur essendo, probabilmente, un ottimo statista) e viene comunque richiamato dai maggiorenti in lite tra di loro, non a furor di popolo.
Non può essere una manovra di potere personale di Letta, perché ne eserciterebbe molto di più sfruttando le potenzialità della sua attuale posizione, che accettando un Vietnam di caminetti.
Non può neanche essere una manovra di riposizionamento strategico del partito, perché non nasce da un’esigenza strategica, ma da una tragedia tattica.
Non può essere una manovra governista, perché più governista di come è ora il Pd non può essere e avrebbe, semmai, l’effetto di legittimare un progressivo raffreddamento tra Pd e mondo 5S, con pregiudizio per il governo.
Può avere un senso solo di revanche personale, per lui, e di mancanza di alternative, per il partito.
Penso, dunque, che fallirà. Cioè che Enrico Letta declinerà l’invito.
Salvo che non pensi di diventare il rifondatore della DC, togliendo il tappeto sotto i piedi a Renzi; negoziando il ruolo di leader dei cespugli Draghiani; isolando la ditta all’interno del pd; proponendosi come erede/nemesi di Berlusconi.
La scommessa sarebbe coraggiosa, ma non folle.
Ed è momento in cui può succedere di tutto.

Tra i vari discorsi sulla crisi del PD, mi ha colpito molto quello di Cacciari: la crisi nasce dall’equivoco sul quale è nato il partito, di voler conciliare una tradizione profondamente sociale e statalista con culture di management e pratiche economiche di stampo neo-liberista.
Io penso che la questione sia più banale. Il gruppo dirigente di quel partito ha perso la bussola e la capacità di rappresentanza.
Tuttavia, la riflessione è profonda.
Si è in effetti creato un humus culturale, un luogo comune della politica pensata, discussa e praticata, che esclude alla radice soluzioni di governo che non siano: democratiche di una democrazia rappresentativa; orientate alla tutela mercantile del mercato e allo stimolo della finanza; solidaristiche, ma solo nei limiti consentiti dalle rigidità di bilancio; nazionaliste, con una dichiarata vocazione al sovranazionalismo partigiano, ma non all’internazionalismo.
In questo contesto, rinforzato dai bastioni della soddisfazione dell’ex proletariato per i risultati di tutela ottenuti per le proprie consolidate posizioni, i partiti social-democratici non possono che abdicare anche ad ambizioni miglioriste, per limitarsi ad una gestione del potere, che inevitabilmente ne contraddice, peraltro, la tensione valoriale.
Si finisce, così, per essere di sinistra più per una questione di stile, di affezione ad alcuni stereotipi o per rifiuto dello stile altrui. Non si riesce però più a fare un discorso di sinistra, per lo meno nei paesi occidentali.
Un discorso di sinistra internazionalista presupporrebbe, invero, la disponibilità ad una seria rinegoziazione degli agi da appartenenza geografica ai quali proprio i più attenti ai temi della socialdemocrazia non vogliono e non possono, pour cause, rinunciare. Soprattutto, la capacità di spiegare a chi dovrebbe trarne giovamento, che – tutto sommato – a loro la storia ha riservato di non sperare nello sfolgorio del sole dell’avvenire, ma di accontentarsi di un meriggio autunnale, illuminato dal fuoco di un camino.
Un discorso di sinistra nazionalista, oltre alla contraddizione in termini, comporterebbe la disponibilità a entrare in conflitto con le classi che sono sentimentalmente più prossime allo stereotipo della sinistra, per denunciarne la condizione di nuove classi privilegiate e la capacità di spiegare a chi patisce l’emarginazione nascente dalla globalizzazione perché deve accettarlo, in nome di un egalitarismo internazionale, negato dai fatti degli estranei e degli intranei.
Rimarrebbe l’ipotesi di un discorso seriamente ambientalista, che deve però superare le forche caudine del governismo di sinistra, per la scarsa abitudine mentale a pensare che ecologia ed economia sono, non solo etimologicamente, entrambi ragionamenti, uno in forma dialogica, l’altro, ponderale e metrica, intorno ad un unico bene.
Non so come andrà a finire.
Sarebbe bello cominciare a discuterne.