Ormai da più di un anno l’Italia si dimena tra aperture e chiusure, zone dal colore caldo a seconda dell’emergenza, polemiche di ogni tipo, governi che cadono e governi che nascono, senza che si riesca a vedere la tanto attesa luce al di là del tunnel. E mentre ci si impelaga in ritardi e disorganizzazioni sul fronte vaccino o ci si scandalizza per alcune scelte poco coerenti come l’apertura delle discoteche nella scorsa estate, esiste una categoria silenziosa di lavoratori che non è mai ripartita dall’inizio di questa pandemia: i lavoratori del mondo dello spettacolo. Non si parla dei grandi nomi della musica, del cinema o del teatro italiano che hanno abbastanza risparmi per sopravvivere a lungo, ma di tutti coloro che vivono dietro un palcoscenico, il muro portante di ogni spettacolo, stimato intorno ai 570 mila operatori di cui 250 mila addetti al settore dei live. Il 10 novembre Vincenzo Spera, il presidente di Assomusica, affermava in un’intervista su Open:

«La crisi è totale e i cali di fatturato si attestano in torno al 97% a fine estate. Ma con la chiusura prorogata a tutto il 2020, il calo sarà ancora più forte».

Sono passati 4 mesi dalla fine del 2020 e tutt’oggi poco è cambiato sul fronte legislativo, a parte un disegno di legge depositato in parlamento nel mese di gennaio dal senatore del Pd Francesco Verducci che si aggiungerebbe al Fus (Fondo Unico dello Spettacolo). Questa proposta si incarica di versare un reddito ai lavoratori nell’attesa di condizioni idonee per far ripartire l’industria. E per far ripartire l’industria? Nonostante i tanti scioperi di questa categoria continuino a susseguirsi, celebre l’episodio dei 500 bauli in Duomo a Milano nel novembre scorso, non c’è nessun segnale di riapertura al momento.

Le poche speranze vengono come sempre dall’estero: il 20 marzo si è tenuto il festival di Lowlands di Biddinghuizen in Olanda, a cui hanno partecipato 1500 spettatori. Tutti hanno dovuto sottoporsi a un test antigenico 48 ore prima dell’evento mentre sul posto sono stati fatti 150 tamponi a campione, con i 26 risultati positivi bloccati all’ingresso. Un esperimento analogo si è svolto al Palau di San Jordi di Barcellona, dove si è tenuto un concerto a cui hanno preso parte 5000 persone, dopo essersi sottoposte al test antigenico ed essere risultate negative. È sicuramente un punto di svolta, ma al quale bisogna dare continuità in attesa di progressi con la vaccinazione. Purtroppo però, se si analizza complessivamente la situazione in Italia, viene difficile credere che si possa dare seguito a questa svolta. I cinema, i teatri, come tutti gli altri luoghi di cultura, sono stati i primi a subire le restrizioni nella scorsa primavera, come se fossero i principali centri di contagio del virus e, durante tutti questi mesi, la ripartenza di un settore così ampio e importante non è mai stata considerata una priorità dai gestori della pandemia. Sicuramente la priorità assoluta è e deve essere la campagna vaccinale, e anche in questo campo i risultati non sono dei migliori (in conformità con l’intera Unione Europea), ma è possibile che non si prendano nemmeno in considerazione esperimenti del genere, a differenza di altri Stati per nulla covid-free? Il festival svoltosi in Olanda è divenuto attuabile grazie a una stretta collaborazione del governo olandese con gli operatori musicali in un’atmosfera colma di pragmatismo e voglia di ritornare alla normalità, mentre in Italia si ha l’ennesima dimostrazione di come la cultura venga demonizzata e considerata un bene trascurabile, non di prima necessità. Nulla di più distante dal vero. Non ci sarà mai una ripartenza della vita se l’arte non va di pari passo.

“L’arte non si può separare dalla vita. È l’espressione della più grande necessità della quale la vita è capace.”

Robert Henri