Tra i vari discorsi sulla crisi del PD, mi ha colpito molto quello di Cacciari: la crisi nasce dall’equivoco sul quale è nato il partito, di voler conciliare una tradizione profondamente sociale e statalista con culture di management e pratiche economiche di stampo neo-liberista.
Io penso che la questione sia più banale. Il gruppo dirigente di quel partito ha perso la bussola e la capacità di rappresentanza.
Tuttavia, la riflessione è profonda.
Si è in effetti creato un humus culturale, un luogo comune della politica pensata, discussa e praticata, che esclude alla radice soluzioni di governo che non siano: democratiche di una democrazia rappresentativa; orientate alla tutela mercantile del mercato e allo stimolo della finanza; solidaristiche, ma solo nei limiti consentiti dalle rigidità di bilancio; nazionaliste, con una dichiarata vocazione al sovranazionalismo partigiano, ma non all’internazionalismo.
In questo contesto, rinforzato dai bastioni della soddisfazione dell’ex proletariato per i risultati di tutela ottenuti per le proprie consolidate posizioni, i partiti social-democratici non possono che abdicare anche ad ambizioni miglioriste, per limitarsi ad una gestione del potere, che inevitabilmente ne contraddice, peraltro, la tensione valoriale.
Si finisce, così, per essere di sinistra più per una questione di stile, di affezione ad alcuni stereotipi o per rifiuto dello stile altrui. Non si riesce però più a fare un discorso di sinistra, per lo meno nei paesi occidentali.
Un discorso di sinistra internazionalista presupporrebbe, invero, la disponibilità ad una seria rinegoziazione degli agi da appartenenza geografica ai quali proprio i più attenti ai temi della socialdemocrazia non vogliono e non possono, pour cause, rinunciare. Soprattutto, la capacità di spiegare a chi dovrebbe trarne giovamento, che – tutto sommato – a loro la storia ha riservato di non sperare nello sfolgorio del sole dell’avvenire, ma di accontentarsi di un meriggio autunnale, illuminato dal fuoco di un camino.
Un discorso di sinistra nazionalista, oltre alla contraddizione in termini, comporterebbe la disponibilità a entrare in conflitto con le classi che sono sentimentalmente più prossime allo stereotipo della sinistra, per denunciarne la condizione di nuove classi privilegiate e la capacità di spiegare a chi patisce l’emarginazione nascente dalla globalizzazione perché deve accettarlo, in nome di un egalitarismo internazionale, negato dai fatti degli estranei e degli intranei.
Rimarrebbe l’ipotesi di un discorso seriamente ambientalista, che deve però superare le forche caudine del governismo di sinistra, per la scarsa abitudine mentale a pensare che ecologia ed economia sono, non solo etimologicamente, entrambi ragionamenti, uno in forma dialogica, l’altro, ponderale e metrica, intorno ad un unico bene.
Non so come andrà a finire.
Sarebbe bello cominciare a discuterne.

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