Per vent’anni, si è speso anche del sangue per insegnare agli Afghani la democrazia e a difenderla.
Lo si è fatto convinti che la democrazia e la libertà e l’individualismo e il laicismo occidentali siano valori assoluti e che tutti nel mondo non vedano l’ora di vivere in una società come quella euro-americana, libera (?) e rutilante. Per cui, fiumi di denaro e di parole, convegni, dossier, ma nessuna attenzione alla crescita sociale del paese, a che i rappresentanti afghani dell’occidente fossero credibili e corretti, all’impatto della nostra cultura su quella altrui.
Appena ci si è convinti che fosse il momento di andar via, in un fiat, è ricomparso quello che era il cancro che si voleva estirpare. E così forte e repentino, che non solo non ha avuto bisogno di combattere, ma non ha neanche anticorpi interni a contrastarlo, a parte qualche coraggiosa giornalista donna (dei quali, chissà perché, i media si affrettano a sottolineare la singletudine) e la speranza, pompata da articoli agiografici, che il rampollo del capo dell’antica resistenza, formato in occidente, abbia voglia, stoffa e modo di raccogliere l’eredità del padre.
Si affollano le analisi e, con esse, i tentativi di ripartizione delle colpe.
Scarsissime le reazioni, salvo di retorica.
Nessuna progettualità concreta, neanche per la gestione del dramma sociale ed umano dei profughi, che frettolosamente si vogliono equiparare, da tutte le parti, agli immigrati economici, per cancellare la responsabilità di averli illusi e, con questa illusione ingenua, costretti non solo a rinunciare al loro paese, ma anche alla dignità che era stata loro offerta in cambio di tutto quello che era loro, come gli specchietti ai Dominicani nel famoso ottobre 1492.
È, insomma, la cronaca, che fatica ancora a farsi storia, perché non è chiaro chi sarà il vincitore che la potrà scrivere, di un fallimento.
A questo fallimento, hanno concorso vent’anni di presidenze repubblicane statunitensi, repubblicane e democratiche. Hanno concorso l’inettitudine e l’ipocrisia benpensante dell’Europa. Hanno concorso il cinismo inumano delle lobbies finanziarie ed industriali. Hanno concorso, infine, il velleitarismo e l’inutilità di programmi di collaborazione che non riescono a superare logiche da frate elemosiniere, con trascorsi nell’agesci e nell’azione cattolica.
Leggendo le cronache dell’avanzata talebana, fra la miseria di campagne devastate da vent’anni di violenza, e palazzi dorati (letteralmente) di gerarchi che han fatto prima a fuggire che a veder avanzare il nemico, mi è venuto da pensare, però, che il principale responsabile di questo fallimento sia un equivoco, che pervade e mina anche le nostre società e ne determinerà probabilmente il superamento. L’equivoco di pensare che ci siano idee, istituzioni, sistemi che possano camminare senza le gambe delle persone, che possano sopravvivere, senza un cuore umano che le senta proprie e le difenda.
Non ho profondità di pensiero e di cultura sufficienti a confermare o smentire le teorie per cui la democrazia e i valori liberali presuppongono e hanno come proprio limite quelli della dimensione dello stato-nazione e della società borghese.
Credo sia sempre più evidente, tuttavia, che quel sistema e quei valori – per quanto si possa ragionevolmente pensare che rappresentino il punto di elaborazione civica più alto mai raggiunto dall’umanità nel corso della sua storia e che abbiano contribuito a costruire le società più ricche ed in pace mai conosciute – non sono auto-evidenti, né self-executing. Non è detto, insomma, che debbano essere apprezzati subito dai membri di una società tradizionale; che abbiamo maggior forza e attrattiva di principi di natura religiosa; che possano funzionare anche laddove ad incarnarli ci siano satrapi e corrotti, ignoranti e mafiosi. Al contrario, chiedono cura costante ed abitudine ad un esercizio che è anti-intuitivo, come quello al dubbio ed al dialogo.
Muoiono e cedono a qualunque altro, se non si formano generazioni abituate a questo sacrificio positivo (non a quello renziano, da oliver twist); se non si promuovono persone che sappiano incarnare, nella quotidianità del loro operare, i principi di democrazia e rispetto dell’altro; se non si insegna a tutti e ciascuno che la libertà è fatta prima di tutto di doveri verso gli altri, la cui violazione è illegittimità e non peccato, perché sono il frutto di regole condivise e non imposte dal papa o dal mullah.
Ma si torna sempre lì: occorre che si combatta per un nuovo umanesimo. E l’occidente, forse, non ne ha più né la voglia, né la forza.
Ieri correva l’anniversario del crollo del Ponte Morandi. Oggi, Kabul è stata riconquistata, senza alcuna resistenza, né armata, né culturale, dai Talebani.
Due delle massime voci dell’Occidente ne hanno parlato: Draghi di Genova; Papa Francesco delle vicende afghane.
Però, la gravità che l’importanza degli oratori ha trasmesso alle parole non riesce a nasconderne la sostanziale vacuità; quella vacuità che rimane propria di ogni messaggio lontano dalle cose che accadono e vincolato all’esigenza di ne pas epater le bourgeois. Anzi, la mendacità; quella mendicità che nasconde dietro luoghi comuni la verità, perché troppo complicata per mere ricorrenze di memoria, in un mondo che non vuole sognare, ma non vuole neppure ricordare: vuole solo emozionarsi pochi minuti, senza profondità.
Draghi ha detto che lo stato ha tradito la fiducia.
Il papa che deve cessare il frastuono delle armi, per far trionfare il dialogo.
A Genova, però, lo Stato ha tradito la fiducia solo dopo il crollo, quando ha aiutato i privati che lo avevano causato, con parole, opere ed omissioni, a massimizzare la buonuscita, anziché condannarli a rifondere i danni. Il prima ed il perché non sono rimproverabili allo Stato: possono esserlo solo a chi ha pensato di guadagnare per guadagnare.
A Kabul, d’altronde, colpisce il silenzio, non il fragore, delle armi, anche solo culturali. E le anime belle, i cuori bianchi sanno bene anche loro che il dialogo presuppone non solo volontà di ascolto, ma anche plausibilità di argomenti, da entrambe le parti. Nel caso che occupa, invece, bisognerebbe invocare e sostenere la non negoziabilità di alcuni valori; il rifiuto di ogni dialogo con certe prepotenze.
Le parole pronunciate hanno l’effetto del placebo: danno la sensazione, ma solo la sensazione, di curare ferite. Ma quelle ferite presupporrebbero assai di più. A partire dalla verità e dalla chiarezza
Per Brecht, era auspicabile che ci fosse pur sempre un giudice a Berlino.
Oggi, a Roma, si teme di incrociarne qualcuno.
I giornali ce ne rimandano immagini di inusitati cinismo, violenza, opportunismo, corruttibilità, indifferenza al ruolo ed alla deontologia.
E nel frattempo, intorno alla riforma della giustizia si sta consumando una feroce guerra di potere e di poteri, in cui può darsi non si vogliano fare né feriti, né prigionieri.
L’uomo solo al comando ha potuto, senza fatica, ottenere il e passeggiare trionfante sul cadavere composto all’omaggio genuflesso di sindacati, associazioni imprenditoriali, partiti, giornalisti e giornalai mentre disponeva in libertà dei soldi del PNRR, blindava le poltrone della Rai per i suoi, riformava il codice degli appalti, consentiva un condono edilizio a spese dello Stato, rivestendolo di semplificazione per il 110%, proponeva una finta e inutile riforma fiscale, gestiva peggio del suo pur pessimo predecessore il calo estivo dell’ondata pandemica.
Ha dovuto invece faticare, e fatica ancora, per anche solo ipotizzare una riforma della giustizia, che si esercita peraltro ancora solo mediante il tentato omicidio della procedura penale.
E le correnti schierano i carri armati per scontrarsi… Financo Greco ha rotto il “doveroso e rigoroso riserbo istituzionale” per sferrare, vilmente, attacco al giovane Storari, mentre lui è a tre mesi dalla pensione.
Chi vivrà, vedrà.
Ma il cancro pare ormai metastatizzato.
E nessuno ha la forza di reagire, perché troppo diffuso e troppo tentacolare è il suo potere, in un paese in cui nessun altro, neanche l’amatissimo Presidente della Repubblica, può davvero esser sereno, di non avere, se non uno scheletro, almeno un femore, che i potenti riflettori delle Procure potrebbero lanciare in pasto ad un Travaglio qualsiasi.
Le macro-cose andranno come possono andare. È complicato anche volersene preoccupare, in fondo, perché un poco non si sanno; un poco abbiamo vinto gli Europei; un poco facciamo affidamento per il futuro a due coppie di vecchi affidabili (Draghi/Mattarella e Chiellini/Bonucci), che ci hanno fatto financo riscoprire l’opportunità di aver studiato. E si sa, che chi caca dubbi senza compagnia, non è figlio di maria, non è figlio di Gesù e quando muore va laggiù. Donc, aspettiamo e vediamo.
D’altra parte, i vari menestrelli della politica hanno subito pronto l’antidoto per l’ansia latente per i contagi che risalgono in estate, senza che sia minimamente colpa del governo, questa volta; e anche per quella ancor più forte di trovarsi a breve con un sistema giustizia con tutti i problemi di prima, ma dotato di una coorte intorno ai giudici civili, per alleviarli dell’improbo compito di studiare i processi, e di processi penali in cui il senso di un istituto antico e liberale, come la prescrizione, già traviato da Cirelli, sarà definitivamente tradito da decadenze processuali che varranno a trasformare il nostro nel Bengodi dei delinquenti danarosi.
Guardare questi giullari all’opera, in effetti, conforta alquanto e dà certezza che forse finiremo male, ma sicuramente con il sorriso sulle labbra e senza preoccupazione che la dignità ed il decoro possano schiacciarci con la loro pesantezza e saremo dunque liberi di galleggiare nello stagno lutulento dei nostri mali.
Funziona, in effetti, come le telenovelas di Veronica Castro e si possono perdere puntate piene di colpi di scena, senza perdere il senso complessivo della trama.
Proviamo però a fare il riassunto.
Letta vuole Conte. Il loro è un amore che appare sincero, rinforzato dal comune odio per chi li ha, un tempo, sedotti (o, per Letta, sedati) e abbandonati: i due Matteo, entrambi pasciuti di panze da latrin lover latini. Eppure, non riescono a convolare a giuste nozze. Anzi, il vescovo che avrebbe dovuto celebrarne il matrimonio gli ha ficcato nel talama tutta l’allegra famiglia, impedendo la consumazione dell’impegno coniugale.
Anche le rispettive famiglie fanno storie… Babbo Grillo vorrebbe addirittura lo ius primae noctis, forse solo per far sapere al mondo che quello che esercita il figlio, con eccessiva leggerezza, anche documentale, non è reato.
E i Matteo, nel frattempo, birichineggiano… Uno, quello fiorentino, fa il dodda, andando assai oltre il Dalema dileggiato da Moretti e dicendo cose assai di destra; mostrandosi in vacanze da nababbo con le mutandone a righe; scrivendo libri da ex, che conoscendo il personaggio servono solo a dire – a chi sicuramente ci sarà – che lui, pur senza elettori, ha il potere di sapere ciò che non fa comodo che si sappia e che è disposto a dirlo, dandone prova a danno proprio del povero Conte, del quale il Matteo è sicuro dell’assenza futura. L’altro, quello longobardo, mostra di aver imparato dal suocero, che gli sgambetti si fanno agli amici, perché i nemici ci pensano da sé, e che val più la certezza di dare le carte, che l’euforia di potere di qualche transeunte sbornia elettorale.
Ma Giuseppe ed Enrico si amano.
Enrico è timorato di dio; Giuseppe è disponibile (o così dice) a sfidare anche il vescovo… entrambi però sanno che se non si sposeranno velocemente, altre coppie verranno invitate da Maria la Sanguinaria e dalla D’Urso.
Ma qui si aspetta la Provvidenza.
Dalla Cornovaglia, ci giungono immagini singolarmente autunnali, più che primaverili e non basta il lussureggiare della foresta tropicale al coperto, per far dominare i colori caldi della speranza, piuttosto che quelli, freddi del timore e dell’incertezza.
Contribuisce, senz’altro, a questo strano clima, la consapevolezza che al tavolo di un gruppo che si autoproclama di Grandi e parla per i giovani, in realtà son seduti solo dei Vecchi, vecchi donne ed uomini e vecchi Paesi.
Vi contribuisce, forse anche, il sentimento di straniamento che pare serpeggiare tra i presenti, alcuni pronti a lasciare il palcoscenico, altri consapevoli di doverlo fare loro malgrado, altri ancora incapaci sempre e comunque di adeguarsi al ruolo: sentimento che sua maestà Queen Elizabeth ha reso con la battuta che riecheggia sui social, se dovessero “sembrare divertiti”.
Soprattutto, però, questa volta è emerso in tutta la sua crudezza ciò che per anni, in consimili occasioni, si è voluto nascondere dietro la facciata di stucco di un multilateralismo collaborativo: il mondo non si avvia verso un’epoca di pace e benessere, alla cui costruzione collaborano tutti, animati dagli stessi valori, obiettivi ed interessi.
Il mondo è ferito, straziato dalle diseguaglianze, fra uomini e paesi; è percorso e condizionato da potentati economici che fanno strame dell’individuo e dei suoi diritti; può precipitare, d’improvviso, in una catastrofe di distruzione dell’ecosfera ambientale e relazionale. E coloro i quali finora hanno sostenuto il contrario – per l’interesse di bottega, del bottegaio tedesco, francese o italiano di vendere qualcosa a chi pensava più povero e sprovveduto, per continuare a sorseggiare cocktail a bordo piscina – non sanno da che parte rifarsi, da dove cominciare, verso dove andare.
Farebbe sorridere, se non facesse paura, che il meglio che sappiano pensare si fonda sul concetto di ricostruzione (il programma si chiama Build Back Better World); che abbiano, insomma, lo sguardo volto all’indietro. È la prova provata, infatti, che la nostra cultura teme di non saper esprimere vette ulteriori rispetto a quelle che ha già toccato; che è consapevole di aver altro che un grande passato di fronte a sé; soprattutto che ha paura del futuro.
E farebbe sorridere, se non sconcertasse, che pensino, temo seriamente, di poter recuperare vent’anni di politica cinese di acquisizione di spazi di controllo nei paesi “poveri” (mi pare non usi più l’espressione orribile in via di sviluppo) attraverso la costruzione di infrastrutture, imitando pedissequamente quella politica, quando essi stessi hanno alimentato, se non altro, una cultura di risentimento verso il loro vecchio colonialismo e di spregio verso la loro attuale ostentazione, proprio in quei paesi e presso quei popoli che vorrebbero recuperare.
Per fortuna, si son ricordati che la nostra cultura si fonda sul rispetto dei diritti umani e sul riconoscimento del loro carattere universale.
Non servirà, purtroppo, nell’immediato.
Anche perché financo tra di noi c’è chi ne ha dimenticato l’importanza e l’attualità, e si identifica in grilli-grulli che nulla sanno e tutto pretendono di insegnare, solo e sempre ai figli degli altri.
Ma quel nocciolo culturale, preservato in qualche monastero virtuale, consentirà prima o poi di ricordare a tutti che l’umanità ha senso se riconosce e preserva l’uomo e non serve, per essa, un mondo migliore, se non riesce a metterne al centro il rispetto.
Sta cominciando l’estate, anche meteorologica. E con essa, l’Europeo. Per di più, i dati sull’andamento del Covid vengono proposti in maniera da minimizzare ogni allarme, né vi è traccia, sui giornali, di alcun dato di crisi.
È poco probabile, allora, che nel paese del cielo sempre più blu abbiano una qualsiasi eco concreta due notizie, che hanno per di più il limite di apparire “tecniche”: che dei pubblici ministeri, esperti e noti, siano stati inquisiti da loro colleghi, per aver nascosto una prova a favore degli indagati, in un processo influente anche sui destini internazionali della più grande (e pubblica) impresa nazionale; che l’Agenzia delle Entrate ha dovuto ritornare ai santi vecchi, perché ha dovuto confessare di non poter utilizzare, per ragioni di privacy (?), gli armadi di dati raccolti sui contribuenti.
Eppure sono notizie che danno la misura del fiato corto e mefitico del nostro sistema, perché denunciano, entrambe, che son saltati i freni; che ormai le garanzie girano all’incontrario di come dovrebbero, che siano quelle della funzione pubblica dell’accusa penale o quelle per la privatezza, incapaci di tutelarci da facebook, ma efficacissime contro lo stato.
Un popolo sano ne sarebbe allarmato; se ne sentirebbe ferito e cercherebbe di raccogliere le forze per reagire.
Per noi, invece, è tempo di guardare le partite di pallone, mentre il nostro ex primo ministro deve inventarsi una scusa non scusante per non imbrattarsi la pochette con le iniziative anti-atlantiche del movimento che rappresenta, proprio alla vigilia del G7 in cui l’Europa invoca un più forte atlantismo (forse di maniera; forse da ridotta) e mentre il nostro ex ministro dell’economia pensa sia cool suonar di chitarra contro i suoi avversari.
Oh, il mandolino…
Merda, bensì d’autore.
Manzoni (Piero) aveva ragione: ormai, basta diventar famoso, per ottener consenso, qualunque cosa si dica, si rappresenti, si racconti.
E così capita che Palamara sia divenuto una delle tante facce del nostro star system, che, deprivato dello stipendio di magistrato, campa di comparsate, diritti d’autore, convegni. È divenuto, anzi, per taluno l’eroe, che si ribella contro il sistema, contro la casta.
Malgrado quel sistema e quella casta abbia contribuito a ideare, creare e rinforzare.
Malgrado, denunciandoli nel modo in cui li denuncia, li rinforza di fatto, perché impedisce qualunque critica costruttiva e dunque che li distrugga e, al contrario, riaccendendo le fazioni, alimenta il fuoco degli interessi che li sostengono.
Malgrado che ciò che racconta sia, niente più e niente di meno, di una chiamata in correità, che non può giustificare applausi e plausi per lui, bensì soltanto punizione e sanzione e riprovazione per chi con lui ha concorso a far strame dello stato di diritto; ad accecare la giustizia, financo dietro la benda.
Ma in fondo anche quella dell’artista è merda: nessuno può smentirlo, neanche quando quella merda paia, per le luci della ribalta, dorata.
E la merda puzza, quando la si agita e anche quando non lo si fa.
E fa concime solo nei campi. Altrimenti, produce altra merda.
Pare che i paesi del G7, cioè quelli rappresentativi dei maggiori mercati del mondo, abbiano deliberato l’istituzione di una imposta/tassa per colpire i grandi operatori del web.
Le linee della proposta appaiono molto coraggiose e, ad un tempo, un poco confuse: al superamento di talune soglie di utile, l’eccedenza diventa base imponibile per la tassazione da parte del paese in cui si è prodotta.
Per realizzare questo progetto, occorrono una grande determinazione politica e una ancor maggiore accortezza tecnica.
Per il momento, mi pare che sia solo un manifesto di buona volontà.
Talvolta, però, occorrono anche quelli.
In concreto, potrebbe servire per richiamare l’attenzione di tutti sul fenomeno rappresentato dal costituirsi di quei grandi operatori come centri di potere indipendenti rispetto a quelli degli stati-nazione e degli organismi sovranazionali tradizionali, non solo dal punto di vista economico, ma anche per la capacità di essere transnazionali, di creare enclavi di fidelizzazione culturale e di sanzionare con forme di esclusione sociale assai penalizzanti (come mostrano le vicende di Trump, che il Congresso non è riuscito a colpire, mentre Twitter e Facebook hanno punito fortemente, per gli stessi fatti).
Speriamo che non valga, invece, alla stessa stregua dello Sugar Act e dello Stamp Act, con i quali gli inglesi pretendevano di imporre imposte sgradite alle colonie nord-americane.
Peggio ancora, che non sia viatico a negoziati, che consentano alle grosse istituzioni del web di pagare, con l’elemosina di pochi milioni di dollari o euro, la distrazione delle antiche istituzioni democratiche, verso forme di spossessamento dei loro cittadini della nuova frontiera della ricchezza: i dati di identificazioni delle loro scelte, dei loro gusti e, dunque, in definitiva, i confini della loro vera libertà.
Le parole della ministro Cartabia di ieri e il suo operare di queste settimane meritano plauso, applausi e sostegno incondizionato.
Agisce senza strepiti, con l’umiltà di chi non pretende di intestarsi alcun merito personale, ma sa di poter fare riferimento alla maturità della riflessione accademica come cosa propria.
Eppure sta costruendo, tassello dopo tassello, una riforma della giustizia e, pare, anche dell’ordinamento giudiziario ispirata a logiche condivisibili, di stimolo all’efficienza del sistema, ma fortemente permeato dai principi costituzionali, di garanzia del contraddittorio e della indipendenza dei magistrati e di tutela dell’imputato.
E lo sta facendo in un paese in cui garantismo e tutela dello stato di diritto sembrano semplici armi linguistiche, che una élite intellettualoide usa contro qualcuno dei propri membri, quando qualche altro sodale viene coinvolto in vicende scabrose; in un paese in cui alcuni magistrati credono di esercitare non più una funzione che esprime un potere dello stato, ma un potere personale o di gruppo; in un paese in cui le storture del funzionamento del sistema giustizia non hanno finora aiutato a chiedere riforme serie, ma solo a far sperare in qualche vendetta contro pubblici ministeri forse troppo aggressivi, forse troppo avvezzi a logiche consortili.
Sicuramente ci saranno profili opinabili nella riforma che verrà.
Ma almeno si comincia.
Forza ministro Cartabia.
Anche Draghi pare in difficoltà a licenziare il PNRR, per colpa dei veti incrociati dei partiti.
Ciò che occorre fare, lo sanno tutti.
Alcuni, però, ne sarebbero danneggiati.
E siccome questi alcuni sono divenuti potenti per l’effetto dei privilegi che hanno accumulato, e sono disonesti della disonestà che deriva dalla paura di perder tutto, quando quel tutto lo si è avuto senza merito, sono in condizione di imporre lo stallo.
Paradigmatica la levata di scudi contro la laurea abilitante per l’esercizio dell’avvocatura.
L’Italia è paralizzata e poco attrattiva per gli investitori, italiani e stranieri, perché il suo sistema di giustizia, penale e civile, non funziona.
Tutti i sistemi di giustizia sono condizionati dalle condizioni dell’avvocatura.
La nostra è umiliata da un sistema ottocentesco, che, in nome di non si sa che cosa, penalizza mortalmente i giovani, favorisce le rendite di posizione, danneggia chi voglia crescere e pregiudica l’autorevolezza dei suoi esponenti, a vantaggio del potere che dovrebbero contrastare e che è divenuto strapotere: la magistratura.
Il sistema ordinistico ha anche fallito nella funzione di gestire gli accessi alla professione, come dimostrano, insieme al numero abnorme degli iscritti, l’inarrestabile calo dei redditi medi degli avvocati, la scarsa deterrenza dei meccanismi di sanzione deontologica, il rococò degli obblighi formativi, disfunzionale alla formazione vera.
Ciò malgrado, appena il governo ha provato a ipotizzare una laurea abilitante, beh… si è invocata, in senso contrario, la costituzione.
Ciò che c’è giova a pochi.
Ma i tanti non hanno voglia, forza, coraggio, capacità non solo per ribellarsi, ma pure forse per accorgersene.