I nostri giornali e i nostri giornalisti sono disabituati e ci hanno disabituato alla riflessione.
È bastato, allora, che Draghi imponesse un minimo di silenzio alla grancassa di Palazzo Chigi e il silenziatore della sua moral suasion agli oppositori (in effetti, sostanzialmente ridotti al tentativo di Rai3 di stabilire un improbabile parallelismo tra le posture della Meloni e quelle di Sharon Stone), perché tutto il circo giornalistico, Travaglio compreso, smettesse di essere routilante e, quindi, calasse sul paese una sorta di strano ebetismo, diviso fra i commenti al Festival (l’unico superstite rito di unità nazionale, come scriveva l’anno scorso Veneziani) e quelli, con minor coinvolgimento, alle dimissioni di Zingaretti.
Mi pare, però, che continuino ad accadere delle cose.
Alcune mi hanno colpito, perché meriterebbero qualche riflessione, almeno dal mio punto di vista.
Mattarella rimanda le elezioni amministrative; il Censis certifica il tracollo dei redditi degli avvocati, soprattutto giovani, donne e meridionali; il procuratore Creazzo, di Firenze, propone e ottiene che sia divelto l’organo di governo dell’Università di Firenze, per brogli nei sistemi concorsuali a Medicina.
Nessuno di questi fatti fa notizia; nessuno buca la soglia dell’attenzione pubblica. Sicuramente, sorprendono meno delle lacrime e dei vestiti di Achille Lauro, quello nuovo.
Per carità: chi ha risolto la crisi di governo in difetto di una chiara maggioranza parlamentare senza sciogliere le camere, non poteva certo contraddire sé stesso, in piena terza ondata. E che i baroni universitari siano corrotti e gli avvocati una manica sempre più larga di scappati di casa sono ormai addirittura luoghi comuni del nostro percepito del paese.
A ben vedere, però, tra la gente normale, – quella che malgrado l’emergenza, si sveglia tutti i giorni cercando di conservare l’equilibrio della quotidianità; la propria azienda; un minimo di dignità – quei fatti, per come si sono svolti, per le loro cause, per quello che significano, dovrebbero suonare come gli allarmi anti-bombardamento nel silenzio della notte. E indurre, sollecita, una reazione, una presa di coscienza, una qualche forma di ribellismo, magari semplicemente sotto le sembianze del dibattito e dell’interrogativo.

Le elezioni sono il massimo momento di democrazia. Si deve senza dubbio alcuno tenere conto dell’avanzamento della pandemia. Non si può tollerare, però, che non se ne discuta, e si prenda semplicemente atto, che sono sospese e potrebbero rimanerlo sine die. Mi si potrebbe obiettare che, dato atto della preminenza della pandemia, si tratterebbe di discussione tra sofisti, fine a sé stessa. Ma non è così: sarebbe stata questa l’occasione per discutere, piuttosto che soltanto delle alchimie per la composizione delle camere, per esempio, del profondo legame che le nostre leggi stabiliscono con la fisicità del momento elettorale. Non si tratta di un legame necessario. Lo dimostrano ciò che accade in altri sistemi, sicuramente democratici, e se si vuole, anche il sentire che la piattaforma Rousseau ha imposto ad una parte importante del nostro elettorato e financo ai riti istituzionali. Si tratta, però, di un legame che può imporre distorsioni, tanto più in un paese di vecchi, vecchi soli e di forte emigrazione interna non sempre registrata all’anagrafe. Si potrebbe dunque pensare a tutelare la democrazia, anche attraverso il voto a distanza.

Il sistema della selezione della classe dirigente apicale del paese mostra da anni delle crepe, che preludono al suo fallimento. Da tempo, si susseguono gli scandali, suscitati da inchieste penali, giornalistiche o semplicemente giudiziarie, avviate dalla reazione degli interessati, sui concorsi nelle università, le nomine in magistratura, le selezioni dirigenziali nella pubblica amministrazione e nelle partecipate pubbliche. E la scuola è ormai un luogo di reclutamento per assedio: viene reclutato chi ha più pazienza ad aspettare che la cittadella allenti le difese ed apra le porte. Non si può rimanere insensibili a questo degrado. E la reazione non deve nascere per conato giustizialista, di reazione all’iniziativa di un magistrato. Dovrebbe nascere, ed essere urlata, perché questo metodo di selezione della classe dirigente non risponde alle esigenze del paese; perché distrugge il capitale umano della nazione, affidando la gestione di gangli vitali per il paese (più di quelli per la produzione del vaccino autarchica, perché così si sarebbe detto un tempo) a persone delle quali sono incerta la capacità e certe la tara reputazionale e conseguentemente la scarsa autorevolezza; perché, distruggendo il capitale umano dell’oggi, pregiudica la possibilità che se ne generi di buono, o almeno di migliore, nel futuro. È anzi un paradosso che l’azione moralizzatrice di alcuni ambiti si possa pensare di affidarla, nell’inerzia della politica, alla magistratura, i cui vertici sono stati colpiti da vicende analoghe.
Bisognerebbe, invece, chiedersi e discutere pubblicamente se la selezione per concorso abbia ancora un senso e non sia più ragionevole sostituirla con forme di cooptazione, che importino severi controlli di responsabilità per il cooptante e rischio di esclusione successiva per il cooptato.

Che gli avvocati siano poveri, soprattutto se sono giovani, meridionali e donne, non è un problema solo di quegli avvocati. Vuol dire, senz’altro, che il nostro sistema giustizia è zoppo. Non c’è e non ci può essere giustizia in un Paese in cui tutti gli avvocati non siano in grado di garantire – attraverso la loro autonomia e la loro dignità economica – l’indipendenza di giudizio, l’approfondimento e l’aggiornamento culturale, la schiena dritta che sono indispensabili per esercitare una professione che (lezione dimenticata dei costituenti) può costituire l’unico efficace contro-potere attivo (e non di difesa, come sarebbe invece l’immunità parlamentare) al potere giudiziario.
Che gli avvocati poveri siano donne e giovani vuol dire, poi, che viviamo in un paese diseguale, che non intende porre rimedio agli scempi sociali che ha perpetrato, spesso in nome di finti progressismi; soprattutto, che viviamo in un paese che non ha strumenti per reagire in futuro alla sua situazione, perché sta tarpando le ali, svilendo, umiliando chi dovrebbe costituire il serbatoio di intelligenza e progettualità per il futuro.
Che ci siano anche avvocati poveri, infine, vuol dire che il paese è afflitto da una piaga verminosa e inguaribile: schiere di laureati che non riescono a ottenere remunerazione, né a trovare una adeguata collocazione sociale. È uno spreco enorme di risorse umane; è la prova provata che sono rimasti mal investiti gli enormi importi spesi per la loro educazione; è la prova che si è avviata una selezione viziosa, che fa rimanere nel paese chi, per mille ragioni, anche non imputabili a lui, comunque non sa e non riesce a trarre frutto della ricchezza più alta di cui una persona può disporre: la competenza. Bisognerebbe allora cominciare a chiedersi, secondo me addirittura urlando e piangendo, come i cori delle tragedie greche, che s’ha da fare, per invertire questa rotta.

Perché Draghi da solo; Draghi con Franco, Cartabia, Colao, Giovannini; Draghi in silenzio; non bastano.

Ma c’è Achille Lauro che canta con Fiorello.
Travaglio in gramaglie.
Renzi che monologa.
Bettini che fa gli schemi del sudoko.
Elettroencefalogramma piatto.

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