Pare che i paesi del G7, cioè quelli rappresentativi dei maggiori mercati del mondo, abbiano deliberato l’istituzione di una imposta/tassa per colpire i grandi operatori del web.
Le linee della proposta appaiono molto coraggiose e, ad un tempo, un poco confuse: al superamento di talune soglie di utile, l’eccedenza diventa base imponibile per la tassazione da parte del paese in cui si è prodotta.
Per realizzare questo progetto, occorrono una grande determinazione politica e una ancor maggiore accortezza tecnica.
Per il momento, mi pare che sia solo un manifesto di buona volontà.
Talvolta, però, occorrono anche quelli.
In concreto, potrebbe servire per richiamare l’attenzione di tutti sul fenomeno rappresentato dal costituirsi di quei grandi operatori come centri di potere indipendenti rispetto a quelli degli stati-nazione e degli organismi sovranazionali tradizionali, non solo dal punto di vista economico, ma anche per la capacità di essere transnazionali, di creare enclavi di fidelizzazione culturale e di sanzionare con forme di esclusione sociale assai penalizzanti (come mostrano le vicende di Trump, che il Congresso non è riuscito a colpire, mentre Twitter e Facebook hanno punito fortemente, per gli stessi fatti).
Speriamo che non valga, invece, alla stessa stregua dello Sugar Act e dello Stamp Act, con i quali gli inglesi pretendevano di imporre imposte sgradite alle colonie nord-americane.
Peggio ancora, che non sia viatico a negoziati, che consentano alle grosse istituzioni del web di pagare, con l’elemosina di pochi milioni di dollari o euro, la distrazione delle antiche istituzioni democratiche, verso forme di spossessamento dei loro cittadini della nuova frontiera della ricchezza: i dati di identificazioni delle loro scelte, dei loro gusti e, dunque, in definitiva, i confini della loro vera libertà.

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