Quanto conosciamo lo stato di salute dei nostri mari? Quanto a fondo siamo informati sulla principale causa di impoverimento delle acque? Seaspiracy, esiste una pesca sostenibile? è il docufilm realizzato dal giovane videomaker e attivista ambientale inglese Ali Tabrizi. E fornisce la risposta più spiazzante ai nostri quesiti. Le sue immagini forti sono un deciso cazzotto nello stomaco dello spettatore. Di quelli che lasciano tramortiti per un certo periodo di tempo, prima di farti acquisire nuova sensibilità.

IL TEMA – Ottenuto dalla crasi di “Sea” e Conspiracy”, il titolo del lavoro riassume il punto di vista dell’acuto osservatore, interessato a mostrare fino a che punto l’uomo possa aver danneggiato il mare. Di più. A narrare in prima persona i retroscena che si celano dietro l’impatto che la pesca intensiva ha sull’ecosistema. I novanta minuti di Seaspiracy si aprono con l’autore bambino che riprende i gabbiani con una telecamera. Il bambino cresce e a 22 anni di età vuole mostrare allo spettatore la bellezza del mare. L’incipit azzurro si scurisce quando l’attenzione si sposta su immagini di balene arenate con lo stomaco pieno di plastica e delfini agonizzanti tra cumuli di rifiuti. Non è un caso che Tabrizi abbia scelto questi due animali: le due specie garantiscono il necessario rimescolamento delle acque e la sopravvivenza del fito-plancton, i microrganismi responsabili della produzione della gran parte dell’ossigeno che respiriamo. Decimare queste specie comporta un danno letale per l’essere umano. Le immagini si susseguono con un ritmo da film d’azione. L’autore si aggira in prima persona nei luoghi e nei contesti nei quali si consumano le scene più atroci. Un viaggio dal Giappone alle isole Far Oer con il fil rouge della denuncia che caratterizza tutto il lavoro. Non procedo oltre con la narrazione per non privare chi, spinto dalla sensibilità del tema o dalla mera curiosità, vorrà approfondire con la visione del documentario. Mi limito soltanto a segnalare i picchi raggiunti da Ali Tabrizi nel vero e proprio giornalismo investigativo. Soprattutto quando il docufilm passa in rassegna le organizzazioni che assicurano la “pesca sostenibile“, come la Marine Stewardship Council, premiata più volte con l’etichetta “salva delfini”, ma che – spiega il film- di delfini ne salva davvero pochi. Per ammazzare otto tonni, sono più di quaranta i delfini che vengono uccisi. Emerge allora il fatto preoccupante che finanche le organizzazioni che professano un approccio sostenibile rechino in seno gravi colpe etiche.

LE REAZIONI – Pur difettando in parte nella cura stilistica, Seaspiracy riesce nell’intento di porre l’uomo di fronte alle proprie azioni mediante l’invito, scomodo e imbarazzante, a riposizionarci sul pianeta. Che il videomaker inglese abbia colto nel segno lo si può comprendere se teniamo in considerazione almeno due ordini di ragioni. Il primo fa capo alle coscienze presso le quali il film ha saputo generare un terremoto emotivo destinato a non passare inosservato. Il cantautore Brian Adams, il campione di football americano Tom Brady, la modella Kourtney Kardashian hanno abbracciato il messaggio e incoraggiato il lavoro. L’utenza ha fatto il resto, tanto che in quarantottore Seaspiracy è entrato nella Top 10 dei film più visti su Netflix in oltre trenta paesi. In secondo luogo, il docufilm ha causato la reazione piccata di quell’industria ittica che Tabrizi mette alla gogna, stigmatizzandone avidità ed interessi. E come spesso accade, nel momento in cui il bersaglio grosso viene colpito nel suo centro pulsante, lo scoccatore del dardo che svela il misfatto è tacciato di eccessiva semplificazione e il contenuto del film etichettato come “propaganda vegana”. A dirimere la controversia ha pensato la BBC con l’indagine meticolosa di tutte le tesi, di Seaspiracy, rilanciando e ampliando l’eco del campanello d’allarme.

L’ANALISI – Assodato che il documentario abbia fatto discutere, ed è questo sicuramente uno degli obiettivi perseguiti dal suo autore, è lecito domandarsi quale livello di lettura vada a toccare il rischioso video-denuncia di Tabrizi. Se cioè la profondità d’analisi si fermerà all’immediatezza della reazione emotiva o se compirà il passo successivo. I documentari Netflix riescono sempre a suscitare uno shock non indifferente. E anche Seaspiracy si inserisce nel medesimo filone. Telecamere nascoste, primi piani sul sangue, il crudo realismo delle macellazioni. Il tutto narrato da una voce fuori campo particolarmente ispirata. Tutto è confezionato con l’intento di innescare il massimo impatto sulla coscienza dello spettatore. Ma se alla pura indignazione non segue la lucida elaborazione razionale, il rischio al quale si va incontro è quello di sfociare nella ideologia. Su questioni tanto delicate si avverte l’esigenza di un più solido fact checking, soprattutto sulle effettive stime degli esemplari delle diverse specie e il futuro degli oceani. Per concludere, sarebbe stato preferibile che alla narrazione improntata allo stimolo emotivo fosse seguita una rigorosa e meditata indagine che non renda vano e controproducente il richiamo mediatico del prodotto audiovisivo.

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