Pare che l’Italia, in generale, e la sua sinistra, in particolare, stiano ricostruendo la loro identità e addirittura la loro tensione identitaria verso il futuro, mediante un forte richiamo transtiberino.
Entrambi gli uomini che la provvidenza ha inviato – uno a raddrizzare le sorti del paese, l’altro a rabberciare i cocci del maggior partito (polo di aggregazione?) della sinistra- infatti, hanno citato Papa Francesco nei rispettivi discorsi di insediamento. E nessuno dei due lo ha fatto per mero ossequio formale. Anzi, tutti e due hanno utilizzato l’autorevolezza papale per rinforzare passaggi fondamentali della personale proiezione programmatica.
La circostanza non è di facile lettura.
Draghi e Letta sono dichiaratamente cattolici. Non sono però clericalisti.
Non hanno neanche bisogno di invocare la benevolenza delle gerarchie ecclesiastiche, perché sanno che ne godrebbero, come direbbe Totò, a prescindere.
Non possono pensare che, nel momento storico di massimo travaglio all’interno della Chiesa cattolica e della Chiesa italiana in particolare, il richiamo alle parole del Papa possa valere come strumento di pre-orientamento del mondo cattolico.
Non hanno neppure evocato l’insegnamento dell’erede di Pietro su parole d’ordine propriamente cattoliche, avendolo anzi fatto Draghi circa l’ambiente; Letta circa il patto intergenerazionale; insomma, su temi e valori universali e trasversali.
L’idea che mi sono fatto è che si tratti di un messaggio di marketing politico, secondo strategie di comunicazione che funzionano almeno dalla notte di Natale dell’800 d.c., ma che hanno la dimensione e costituiscono la prova di grande sensibilità culturale.
Papa Bergoglio è tanto Pop(e) quanto lo era Wojtyla. Sono però icone di due parti diverse e, forse, contrapposte dello stesso mondo.
Evocare quella bergogliana vuol dire, allora, chiarire, per Draghi, di non essere l’incarnazione di un potere finanziario da quinta colonna, alla Marcinkus, a coloro i quali – soli (perché Salvini non ha più le unghie e Berlusconi non ha interesse) – avrebbero potuto manifestare disagio, almeno culturale, per un suo strapotere, che effettivamente si sta mostrando incontrastato anche a livello mediatico, pur senza bisogno degli eccessi di Casalino; per Letta che se gli vedranno utilizzare uno stile democristiano (che ha subito rivestito di riformismo, ma che va tradotto in attenzione alle reti di potere e di relazione pre-esistenti), non potranno comunque rimproverargli sostanza di mediazione, perché del mondo cattolico prende e sposa solo il progressismo.
Mi conforta, tuttavia, che questo messaggio di marketing paia rivestire una sostanza perlomeno di chiarezza, in entrambi i casi.
Mi pare lo si possa dire per Draghi, che – lemme lemme, tomo tomo – ha avviato un’operazione di ri-articolazione del sistema di potere, che ha innescato il tracollo del grillismo e del franceschinismo (vero sconfitto delle dimissioni di Zingaretti) e la crisi del contismo, del dimaismo e del salvinismo; la riassegnazione delle ambasciate; un nuovo fermento intorno alla discussione (vera) sul sistema giustizia; nuove abitudini sul rispetto dell’architettura delle fonti normative (e dunque dei poteri) disegnata dalla costituzione.
Ho la sensazione che sarà così anche per Letta, che ha cominciato il suo percorso lanciando la sfida da parole ed espressioni e battaglie massimamente divisive e, quindi, identitarie, quali quella sullo ius soli; sull’equità fiscale; sul dialogo con i 5Stelle (che quando diventa dialogo presuppone diversità).
Mi auguro che questo inaspettato fenomeno produca analoghi smottamenti culturali e di chiarezza anche a destra o, per lo meno, in quella parte di quel mondo che si ispira ai valori liberali.
A ben pensare, infatti, tanta parte di quello che è accaduto in Italia negli ultimi vent’anni non è colpa della scarsa alternanza politica: la ricerca e la prassi dell’alternanza su quel piano hanno, anzi, generato una polarizzazione, che è sfociata progressivamente nello scontro tra i populismi.
È colpa di una ridottissima possibilità di alternativa culturale, che ha prodotto un conformismo sostanziale nel mondo della cultura, prima delle espressioni, poi dei pensieri, infine dei metodi.
E questa situazione non può essere risolta rilanciando parole d’ordine alla base, ma rivitalizzando il discorso intellettuale.
E a me pare ce ne sia tanto più bisogno, quando si ponga mente al fatto che la pandemia ha accentuato sì le diseguaglianze, ma anche chiarito che libertà e tutela dell’individuo non sono parole vuote di significato, neppure nel mondo ultraconnesso e ultra consumista che viviamo.

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