L’Italia e gli italiani, sia quelli stanziali sia quelli della nuova diaspora dei cervelli, non hanno alcuna alternativa plausibile ad un forte europeismo.
Bisogna però chiarirsi, senza false retoriche, su quale contenuto debba auspicarsi si riempia questo europeismo. L’europeismo, infatti, è come il debito: ce n’è di buono e di pessimo.
La vicenda della campagna vaccinale, i tentennamenti di Merkel, la litigiosità e il gretto egoismo di molti stati membri, la mancanza di una strategia geo-politica che non abbia le stigmate del puro mercantilismo, l’arretratezza anche dei campioni europei nei settori cruciali dello sviluppo (nano tecnologie; informatica; social-media; controllo dei big data; intelligenza artificiale), l’incapacità di creare un nuovo equilibrio di welfare stanno dimostrando, mi pare, che l’Europeismo delle bandiere blu stellate che garriscono stagliandosi su avveniristici (solo per la nostra sensibilità architettonica, un po’ retrò) grattacieli vitrei è un Europeismo incapace di pensare il futuro; soprattutto, un futuro di crescita solidale.
L’equilibrio sul quale è fondata la sua complessa architettura istituzionale è troppo delicato, troppo bisognoso della rarefazione e della sublimazione dei conflitti, tra regioni, tra interessi, tra culture, tra generazioni, per reggere alle crisi.
D’altra parte, la sua è una burocrazia di deracinés, senza radici, che inevitabilmente, dunque, sconta un eccesso di autoreferenzialità e di rigidità, che rende ardua ogni reazione adeguata alle emergenze, ogni capacità di adattamento ai cambiamenti.
Le strutture che non sanno affrontare le crisi, né reagire alle emergenze possono sopravvivere; possono, addirittura, consentire alle loro élites di prosperare. Non possono però giammai essere strumenti e luoghi di crescita.
Le parole d’ordine che lanciano, anche quelle più entusiasmanti, dalla green economy alla risilienza (che, in realtà, più che parola di speranza, come negli auspici di chi la usa, sta diventando ormai mezzo per la constatazione, attraverso però l’occultamento linguistico, del pessimo stato delle cose), finiscono per essere capi d’intestazione di nuovi protocolli, fini a sé stessi.
Bisognerebbe ritornare all’idea di un’Europa integrata, di europei e non di nazioni; un’Europa che metta a frutto le ricchezze che la storia e gli errori commessi nel lungo percorso della storia le hanno regalato; di un’Europa che sappia essere orgogliosa del proprio passato, per spiegare che, per molti versi, quel passato sarebbe ancora futuro in tante altre lande; soprattutto, per spiegare che non ci puoi essere futuro dell’umanità, senza tutela dell’uomo, dei diritti inalienabili (cioè invendibili e, dunque, senza prezzo) di cui ciascun appartenente alla specie è portatore.
Questa Europa, però, presuppone voglia di investimento e, dunque, di rischio.
Si diffonde però sempre di più l’idea che, per consentirci di vivere tranquillamente questo triste autunno della nostra cultura, si debba dare spazio al principio della massima prudenza.
E dunque sembriamo condannati ad un circolo vizioso, ingannati anche dall’ultimo beffardo vessillo: la Next Generation Ue, convinti, da un circuito meramente lessicale, che si lavori per il futuro, quando si sta solo cercando di consolidare un presente tombale.

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