Dopo un’accurata osservazione di reazioni e commenti pubblicati su Instangram da parte di un gruppo di giovani, i ricercatori dell’Università del Surrey e dell’Ateneo di Padova sono giunti alla conclusione che l’utilizzo compulsivo e incontrollato del popolare social network può accentuare, in determinate persone, i vissuti negativi del proprio corpo e indurle a pensare di ricorrere alla chirurgia estetica.

IL PARERE DEL DOTTOR ERIK GEIGER – Il medico, specialista in chirurgia plastica e medicina estetica, conferma che oggi giorno, a differenza del passato, sui social vi è un continuo e incessante bombardamento di stereotipi che tendono a un’idea di perfezione che poi in realtà non esiste. Tutto questo sta portando a parlare di dismorfofobia, patologia legata ad un errata percezione di se stessi, che induce  a non essere mai soddisfatti del proprio corpo, rendendo piccolissimi inestetismi dei difetti grossissimi, e spingendo soprattutto le donne più giovani a rivolgersi a chirurghi, mostrando loro l’obiettivo da raggiungere tramite foto di se stesse già modificate da filtri social. La cosa più pericolosa è che, oltre ad ambire ad una bellezza che è irreale e non esiste in natura, ma solo virtualmente, si ambisce anche alla bella vita che fanno quei personaggi presi come modelli dai social.

Influencer Taking Selfie

TUTTA COLPA DEI SOCIAL? – Secondo il Dottor Geiger però la colpa non è solo dei social ma il problema è ben più grande. Fondamentale è per i chirurghi decidere se considerare le persone che si rivolgono a loro come pazienti o clienti, cercando di capirne motivazioni e stato mentale. Fortunatamente per le persone minorenni che vogliono ricorrere alla chirurgia l’iter è molto rigido. Comunque sempre secondo Geiger è molto importante l’esempio che queste ragazze hanno in famiglia. Mentre una mamma che non ha mai usato la chirurgia estetica ha la forza di dire di no a una figlia che le chiede di ritoccare una parte del corpo, più difficile è per quella madre già ricorsa lei stessa al chirurgo.

Arrivato a Torino nell’ultimo giorno del calciomercato estivo, il talento azzurro ha il compito arduo di raccogliere la pesante eredità di Cristiano Ronaldo e rilanciare la Juventus. In Conferenza il ragazzo si è mostrato emozionato ma pronto a cogliere l’opportunità.

TORINOTalvolta le seconde stagioni di una serie tv non riscontrano il gradimento della prima. Talvolta i sequel non attivano le scintille emotive del capitolo precedente. La Juventus di questa stagione ha, invece, deciso di riporre credito esteso nei ritorni. Dal primo alla guida tecnica, quello di Allegri, al secondo in campo con Moise Kean. Il terzo, quello che risponde alla voce di Miralem Pjanic, è sfumato per una questione di monte ingaggi. Ma siamo sicuri che in quel di Torino non avrebbero disdegnato il ritorno del bosniaco. Per Kean la situazione è però diversa. Non torna a vestire il bianconero un calciatore nelle ultime fasi della carriera ma un ragazzo sul trampolino di lancio verso la consacrazione. Il giovane classe 2000 si presenta all’Allegri bis con l’interessante bottino di 41 presenze e 17 reti al Psg. E con le motivazioni di chi sa quello che vuole. “Nessuna pressione. Sono tornato per dare una mano, sono tornato per giocare e mi sento responsabile di dare il 100% per questa maglia”, così Kean ha risposto alla puntuale domanda su CR7. Con una serenità che può ai più apparire sorprendente. Più che di serenità si può parlare, a ragione, di rassicurante consapevolezza. Ronaldo ha viaggiato su score realizzativi che il genere umano faticherebbe a replicare. La scelta di fare ritorno nella squadra che lo ha lanciato nel grande calcio dimostra una determinazione e un attaccamento da veterani. Nei prossimi mesi, sapremo se la sua esplosività si innescherà ancora una volta, come tre stagioni fa, quando la sua stella brillò proprio contro il Milan allo Stadium.

RISERVA DI LUSSO? – Ciò che resta ancora da chiedersi sostanzia il comprensibile scetticismo iniziale che il suo arrivo ha portato con sé. Come e dove Moise Kean può inserirsi nelle idee di Massimiliano Allegri? Il talento azzurro ha finora totalizzato due presenze, entrambe da subentrante. La prima nell’ultimo impegno in campionato con il Napoli di Spalletti. Subentra a Morata e respinge goffamente verso la propria porta l’angolo di Zielinski per il patatrac che ben conosciamo. Sfortuna? Anche. Ma forse poca lucidità nell’affrontare con il piglio giusto una gara che i bianconeri stavano indirizzando verso il pareggio. Kean ha timbrato il cartellino delle presenze per la seconda volta martedì scorso in terra svedese. Ancora una volta prende il posto del centravanti spagnolo. Ma stavolta la prestazione è diversa. Complice anche una gara ormai in discesa con ampi spazi e schemi svedesi saltati. L’attaccante ex Psg ha approcciato alla partita di Champions senza l’emozione del nuovo debutto. La sua personalità è mersa con nitidezza e soltanto il fuorigioco gli ha negato la gioia di salire sulla giostra del gol al Malmoe. Se il buongiorno si vede dal mattino, nelle gerarchie di mister Allegri Moise Kean parte dietro Alvaro Morata. Almeno in questo momento. Lo spagnolo è l’uomo al quale il tecnico affida il reparto offensivo dal primo minuto. Lo spazio per l’ultimo arrivato è quello che saprà ricavarsi nella staffetta con il canterano. Tra pochi giorni valuteremo un nuovo capitolo dell’alternanza in attacco, con la possibilità che le gerarchie si rovescino. Dipenderà soltanto da lui. “Ho già segnato al Milan, ma non si può vivere di ricordi”, forse è il momento buono per mettere in atto una riproposizione in tempo reale della rete ai rossoneri. Appuntamento domenica alle 20,45.

Nuovo asset per l’Eca di Al-Khelaifi. Entusiasta Ceferin che non risparmia una frecciata ad Agnelli quale capitano reo di aver abbandonato la nave Uefa.

NOMINE – Più che la composizione del nuovo Executive Board dell’Eca sembra di assistere al più diretto contrattacco Uefa agli oppositori dell’Ancien régime del calcio europeo. Un nuovo capitolo della vicenda Superlega che continua a rimbalzare da una parte all’altra degli schieramenti con toni aspri e veleni destinati a non risanare ferite sin troppo profonde. E così tra i nuovi volti dell’Eca figurano Alessandro Antonello, CEO dell’Inter, Daniel Levy, presidente del Tottenham e Miguel Ángel Gil, CEO dell’Atletico Madrid. Inter, Tottenham e Atletico Madrid. Tre club firmatari del nuovo progetto Superlega ma che hanno ritirato oggi il premio fedeltà conseguente al tempestivo rinsavire. L’Associazione dei club europei con a capo Nasser Al-Khelaifi fa terra bruciata intorno a sé dopo le dimissioni di Andrea Agnelli. Un gesto dal forte sapore politico che mira a irradiare il suoi effetti sulle tenebre dei promotori del golpe innovativo. “Avverto un senso di rinnovata speranza per la nostra organizzazione e per la famiglia del calcio europeo. Sono qui per rappresentare ogni singolo membro. Recentemente, alcune persone hanno cercato di dividerci. Hanno fallito. Hanno ottenuto il contrario: ci hanno unito e siamo più forti. Sono fiducioso, il futuro del calcio europeo non potrebbe essere più luminoso”, così il numero uno del PSG, millantando una forza tutta economica e molto poco progettuale. Vedte già la nebbia che si dirada e lascia spazio ad un cielo azzurro con qualche pittoresca nuovoletta? No? Forse perché la predica moraleggiante dello sceicco appare più un goffo tentativo di propaganda che una illuminata dichiarazione d’intenti. Fuori luogo e inadeguato a dir poco, il messaggio del patron del PSG stona con quanto abbiamo assistito negli ultimi due mesi. Al Khelaifi è stato capace di allestire a Parigi una squadra con i più forti giocatori del mondo che per una combinazione fortuita sono approdati sotto la Torre Eiffel a zero. Per riuscire nello scopo, ha elargito commissioni sontuose agli agenti e garantito un monte ingaggi che rende certamente più eque le possibilità dei club “minori”. Non so voi, ma io mi sento già molto più rassicurato sul futuro.

CAPITANI E NAVI – In occasione dell’evento, anche il presidente Uefa Aleksandr Ceferin ha preso la parola per tornare sulla questione Superlega: “Molti di noi si stanno chiedendo quando torneremo alla normalità, perché il 2020 e il 2021 sono stati tutto fuorché normali. C’è stata la pandemia, che ha indebolito il mondo del calcio, ma dobbiamo restare uniti anche per riprenderci da quella disgraziata e ciarlatana Super Lega, che speriamo sia stata solo un episodio che non vogliamo tornare a vivere. Dobbiamo ora perseguire una normalità migliore, un modello per il calcio europeo, muovendoci verso un futuro luminoso per tutti e non solo per pochi privilegiati”. Prima che possiate pensare che il destinatario delle ultime sue parole fosse stato Al-Khealifi e il calcio dei facoltosi sceicchi, devo precisare che il numero uno Uefa faceva, invece, riferimento a Perez e compagni, i pericolosi sabotatori del modello Uefa. Se le dichiarazioni sopra riportate non vi avessero già strappato un sorriso amaro, lo faranno senza dubbio quelle successive, relative al Financial Fair Play che, secondo Ceferin, “non supporterà comportamenti irresponsabili ma sarà solido, incoraggerà gli investimenti: i club devono capire che le strategie finanziarie possono impattare su tutte le altre”. Oltre a limitarci a non comprendere l’assurdo paradosso della risoluzione del problema mediante il problema stesso, segnaliamo la stringente necessità di un tetto salariale che possa arginare la sperequazione sugli ingaggi e garantire un più sano equilibrio. E che appare, a ben vedere, una soluzione dalla portata molto più ampia. Nessuna parola dei vertici Uefa in merito. Ceferin ha preferito indossare abiti talari e crocefisso per evangelizzare il popolo in ascolto con un brano tratto dal vangelo secondo l’Uefa: “Quando attraversi una tempesta hai bisogno di un buon capitano e l’Eca ora ce l’ha, mentre quello che c’era prima è scappato dalla nave”. Amen.

Finisce in parità la prima gara dell’Italia dopo la storica finale di Wembley contro l’Inghilterra vinta ai rigori. La squadra di Roberto Mancini non riesce a battere la Bulgaria che risponde prima dell’intervallo al gol di Federico Chiesa. Di certo non è stato il risultato in cui il c.t. azzurro aveva sperato, ma si dimostra ottimista per il prossimo incontro. Ecco alcune delle sue parole rilasciate ai microfoni di RaiSport: “Abbiamo attaccato l’area con Chiesa, Insigne e Berardi, ma siamo stati imprecisi. Loro hanno difeso bene, noi abbiamo cercato di fare il massimo per vincere fino alla fine. Loro hanno fatto un tiro in porta, per noi è stata una di quelle partite dove se avessimo giocato un’altra mezz’ora non avremmo comunque segnato. Se avessimo vinto sarebbe stato meglio, ma avremmo comunque dovuto vincere la prossima”.

Il capitano Leonardo Bonucci (che ha disputato la gara numero 110 in maglia azzurra) invece risponde così: “Ora pensiamo a domenica: da qui in poi tutte le partite saranno da vincere.Sapevamo che contro la Svizzera dovevamo vincerle tutte e due e così sarà. Andiamo lì per vincere, poi vedremo il ritorno a novembre“.

Per vent’anni, si è speso anche del sangue per insegnare agli Afghani la democrazia e a difenderla.
Lo si è fatto convinti che la democrazia e la libertà e l’individualismo e il laicismo occidentali siano valori assoluti e che tutti nel mondo non vedano l’ora di vivere in una società come quella euro-americana, libera (?) e rutilante. Per cui, fiumi di denaro e di parole, convegni, dossier, ma nessuna attenzione alla crescita sociale del paese, a che i rappresentanti afghani dell’occidente fossero credibili e corretti, all’impatto della nostra cultura su quella altrui.
Appena ci si è convinti che fosse il momento di andar via, in un fiat, è ricomparso quello che era il cancro che si voleva estirpare. E così forte e repentino, che non solo non ha avuto bisogno di combattere, ma non ha neanche anticorpi interni a contrastarlo, a parte qualche coraggiosa giornalista donna (dei quali, chissà perché, i media si affrettano a sottolineare la singletudine) e la speranza, pompata da articoli agiografici, che il rampollo del capo dell’antica resistenza, formato in occidente, abbia voglia, stoffa e modo di raccogliere l’eredità del padre.
Si affollano le analisi e, con esse, i tentativi di ripartizione delle colpe.
Scarsissime le reazioni, salvo di retorica.
Nessuna progettualità concreta, neanche per la gestione del dramma sociale ed umano dei profughi, che frettolosamente si vogliono equiparare, da tutte le parti, agli immigrati economici, per cancellare la responsabilità di averli illusi e, con questa illusione ingenua, costretti non solo a rinunciare al loro paese, ma anche alla dignità che era stata loro offerta in cambio di tutto quello che era loro, come gli specchietti ai Dominicani nel famoso ottobre 1492.
È, insomma, la cronaca, che fatica ancora a farsi storia, perché non è chiaro chi sarà il vincitore che la potrà scrivere, di un fallimento.
A questo fallimento, hanno concorso vent’anni di presidenze repubblicane statunitensi, repubblicane e democratiche. Hanno concorso l’inettitudine e l’ipocrisia benpensante dell’Europa. Hanno concorso il cinismo inumano delle lobbies finanziarie ed industriali. Hanno concorso, infine, il velleitarismo e l’inutilità di programmi di collaborazione che non riescono a superare logiche da frate elemosiniere, con trascorsi nell’agesci e nell’azione cattolica.
Leggendo le cronache dell’avanzata talebana, fra la miseria di campagne devastate da vent’anni di violenza, e palazzi dorati (letteralmente) di gerarchi che han fatto prima a fuggire che a veder avanzare il nemico, mi è venuto da pensare, però, che il principale responsabile di questo fallimento sia un equivoco, che pervade e mina anche le nostre società e ne determinerà probabilmente il superamento. L’equivoco di pensare che ci siano idee, istituzioni, sistemi che possano camminare senza le gambe delle persone, che possano sopravvivere, senza un cuore umano che le senta proprie e le difenda.
Non ho profondità di pensiero e di cultura sufficienti a confermare o smentire le teorie per cui la democrazia e i valori liberali presuppongono e hanno come proprio limite quelli della dimensione dello stato-nazione e della società borghese.
Credo sia sempre più evidente, tuttavia, che quel sistema e quei valori – per quanto si possa ragionevolmente pensare che rappresentino il punto di elaborazione civica più alto mai raggiunto dall’umanità nel corso della sua storia e che abbiano contribuito a costruire le società più ricche ed in pace mai conosciute – non sono auto-evidenti, né self-executing. Non è detto, insomma, che debbano essere apprezzati subito dai membri di una società tradizionale; che abbiamo maggior forza e attrattiva di principi di natura religiosa; che possano funzionare anche laddove ad incarnarli ci siano satrapi e corrotti, ignoranti e mafiosi. Al contrario, chiedono cura costante ed abitudine ad un esercizio che è anti-intuitivo, come quello al dubbio ed al dialogo.
Muoiono e cedono a qualunque altro, se non si formano generazioni abituate a questo sacrificio positivo (non a quello renziano, da oliver twist); se non si promuovono persone che sappiano incarnare, nella quotidianità del loro operare, i principi di democrazia e rispetto dell’altro; se non si insegna a tutti e ciascuno che la libertà è fatta prima di tutto di doveri verso gli altri, la cui violazione è illegittimità e non peccato, perché sono il frutto di regole condivise e non imposte dal papa o dal mullah.
Ma si torna sempre lì: occorre che si combatta per un nuovo umanesimo. E l’occidente, forse, non ne ha più né la voglia, né la forza.

Ieri correva l’anniversario del crollo del Ponte Morandi. Oggi, Kabul è stata riconquistata, senza alcuna resistenza, né armata, né culturale, dai Talebani.
Due delle massime voci dell’Occidente ne hanno parlato: Draghi di Genova; Papa Francesco delle vicende afghane.
Però, la gravità che l’importanza degli oratori ha trasmesso alle parole non riesce a nasconderne la sostanziale vacuità; quella vacuità che rimane propria di ogni messaggio lontano dalle cose che accadono e vincolato all’esigenza di ne pas epater le bourgeois. Anzi, la mendacità; quella mendicità che nasconde dietro luoghi comuni la verità, perché troppo complicata per mere ricorrenze di memoria, in un mondo che non vuole sognare, ma non vuole neppure ricordare: vuole solo emozionarsi pochi minuti, senza profondità.
Draghi ha detto che lo stato ha tradito la fiducia.
Il papa che deve cessare il frastuono delle armi, per far trionfare il dialogo.
A Genova, però, lo Stato ha tradito la fiducia solo dopo il crollo, quando ha aiutato i privati che lo avevano causato, con parole, opere ed omissioni, a massimizzare la buonuscita, anziché condannarli a rifondere i danni. Il prima ed il perché non sono rimproverabili allo Stato: possono esserlo solo a chi ha pensato di guadagnare per guadagnare.
A Kabul, d’altronde, colpisce il silenzio, non il fragore, delle armi, anche solo culturali. E le anime belle, i cuori bianchi sanno bene anche loro che il dialogo presuppone non solo volontà di ascolto, ma anche plausibilità di argomenti, da entrambe le parti. Nel caso che occupa, invece, bisognerebbe invocare e sostenere la non negoziabilità di alcuni valori; il rifiuto di ogni dialogo con certe prepotenze.
Le parole pronunciate hanno l’effetto del placebo: danno la sensazione, ma solo la sensazione, di curare ferite. Ma quelle ferite presupporrebbero assai di più. A partire dalla verità e dalla chiarezza

Da pochi mesi ci siamo ormai abituati all’utilizzo del QR-Code ed alla parola Green Pass. Ecco velocemente come utilizzare questo strumento di accesso e quali app possono essere utili alla sua conservazione.

possibile ottenerlo se vaccinati, anche solo dopo la prima dose, guariti dall’infezione oppure con test molecolare o antigenico rapido con risultato negativo. La certificazione verde non sarà richiesta ai bambini fino ai 12 anni e alle persone esenti dalla vaccinazione sulla base di idonea certificazione medica.

La certificazione si potrà scaricare in pochi minuti App “Immuni” o “Io”, oppure accedendo al proprio Fascicolo sanitario elettronico o sul sito web del governo, dedicato www.dgc.gov.it

COME FUNZIONA IN ITALIA?

In Italia è il Ministero della Salute a rilasciare la Certificazione verde COVID-19 attraverso la Piattaforma nazionale, sulla base dei dati trasmessi dalle Regioni e Province Autonome.

Ecco le principali caratteristiche di funzionamento:

Dopo la vaccinazione oppure un test negativo oppure la guarigione da COVID-19, la Certificazione viene emessa automaticamente in formato digitale e stampabile dalla piattaforma nazionale.

Quando la Certificazione sarà disponibile, riceverai un messaggio via SMS o via email, ai contatti che hai comunicato quando hai fatto il vaccino o il test o ti è stato rilasciato il certificato di guarigione; il messaggio contiene un codice di autenticazione (AUTHCODE) da usare sui canali che lo richiedono e brevi istruzioni per recuperare la certificazione.
Puoi acquisire la Certificazione da diversi canali in modo autonomo: su questo sito con accesso tramite identità digitale (Spid/Cie) oppure con Tessera Sanitaria (o con il Documento di identità se non sei iscritto al SSN) in combinazione con il codice univoco ricevuto via email o SMS; nel Fascicolo sanitario elettronico; tramite l’App “Immuni”e l’App IO.
 
La certificazione contiene un QR Code con le informazioni essenziali. Agli operatori autorizzati al controllo devi mostrare soltanto il QR Code sia nella versione digitale, direttamente da smartphone o tablet, sia nella versione cartacea.
La verifica dell’autenticità del certificato è effettuata dagli operatori autorizzati, per esempio nei porti e negli aeroporti, in Italia tramite l’app VerificaC19, nel rispetto della privacy.

Per Brecht, era auspicabile che ci fosse pur sempre un giudice a Berlino.
Oggi, a Roma, si teme di incrociarne qualcuno.
I giornali ce ne rimandano immagini di inusitati cinismo, violenza, opportunismo, corruttibilità, indifferenza al ruolo ed alla deontologia.
E nel frattempo, intorno alla riforma della giustizia si sta consumando una feroce guerra di potere e di poteri, in cui può darsi non si vogliano fare né feriti, né prigionieri.
L’uomo solo al comando ha potuto, senza fatica, ottenere il e passeggiare trionfante sul cadavere composto all’omaggio genuflesso di sindacati, associazioni imprenditoriali, partiti, giornalisti e giornalai mentre disponeva in libertà dei soldi del PNRR, blindava le poltrone della Rai per i suoi, riformava il codice degli appalti, consentiva un condono edilizio a spese dello Stato, rivestendolo di semplificazione per il 110%, proponeva una finta e inutile riforma fiscale, gestiva peggio del suo pur pessimo predecessore il calo estivo dell’ondata pandemica.
Ha dovuto invece faticare, e fatica ancora, per anche solo ipotizzare una riforma della giustizia, che si esercita peraltro ancora solo mediante il tentato omicidio della procedura penale.
E le correnti schierano i carri armati per scontrarsi… Financo Greco ha rotto il “doveroso e rigoroso riserbo istituzionale” per sferrare, vilmente, attacco al giovane Storari, mentre lui è a tre mesi dalla pensione.
Chi vivrà, vedrà.
Ma il cancro pare ormai metastatizzato.
E nessuno ha la forza di reagire, perché troppo diffuso e troppo tentacolare è il suo potere, in un paese in cui nessun altro, neanche l’amatissimo Presidente della Repubblica, può davvero esser sereno, di non avere, se non uno scheletro, almeno un femore, che i potenti riflettori delle Procure potrebbero lanciare in pasto ad un Travaglio qualsiasi.

Più del 50% ha completato le due dosi di vaccinazioni ed ci si avvia al tanto ormai sperato 80/90% di popolazione completamente vaccinata. C’è comunque – ancora – la solita notizia che circola in rete: i vaccinati si ammalano con la stessa frequenza dei non vaccinati. Sempre e comunque perché chi fa questi calcoli usa la matematica casalinga e non le percentuali oppure – in generale – un approccio matematico.

Più aumentano i vaccinati più aumenteranno i rari casi di contagiati e malati anche tra chi è vaccinato: fino potenzialmente a superare in termini assoluti quelli tra la popolazione che non si è vaccinata. Ma considerando i valori percentuali, è evidente quanto siano enormemente più limitati gli effetti del coronavirus tra chi è completamente vaccinato, rispetto a chi ha ricevuto una sola dose o nessuna.

Un vaccino non protegge mai tutti gli individui che vengono vaccinati, circostanza che si applica anche agli attuali vaccini contro il coronavirus. Dalle analisi dell’ISS, sappiamo che i completamente vaccinati sono protetti all’88 per cento dall’infezione, al 94 per cento dal ricovero in ospedale, al 97 per cento dal ricovero in terapia intensiva per sintomi gravi e al 96 per cento dal decesso per COVID-19.

Date queste circostanze, ci si può quindi attendere che tra le persone vaccinate ci siano alcuni casi di infezione, ricovero e decesso. La quantità di casi è però estremamente più bassa – in percentuale – rispetto a ciò che avviene tra gli individui non vaccinati.

Man mano che le persone vaccinate aumentano, si riduce la quantità dei casi tra la popolazione proprio per l’efficacia della vaccinazione. Si può arrivare a un punto in cui i rari casi tra i vaccinati sono in termini assoluti più numerosi rispetto a quelli tra i non vaccinati.

Se l’intera popolazione fosse vaccinata, i casi rilevati sarebbero solo tra persone vaccinate, ma sarebbero comunque pochissimi e molti meno di quanti se ne riscontrerebbero in totale assenza del vaccino.

In uno scenario in cui 85 sono vaccinate e 15 no, è possibile che in termini assoluti ci siano più contagi tra il primo gruppo, semplicemente perché è molto più numeroso del secondo. Considerando le percentuali, però, il dato assume tutto un altro significato: l’ISS ha stimato che il rapporto tra il numero dei casi e la popolazione è circa dieci volte più basso nei vaccinati rispetto ai non vaccinati.

Il paradosso dei vaccinati è noto da tempo a virologi ed epidemiologi, e come precisa l’ISS è importante che sia chiaro a tutti come valutarlo «per evitare preoccupazioni e perdita di fiducia nella vaccinazione».

La difficoltà nell’interpretare correttamente certe informazioni deriva anche dal fatto che attraverso la sorveglianza – con il sistema dei tamponi e dei test – si rendono evidenti i rari casi di persone che si ammalano malgrado si siano vaccinate, mentre restano totalmente sotto traccia i casi di malattia evitati grazie ai vaccini (e che sono la maggioranza).

Più è alta la percentuale di vaccinati, più la popolazione è protetta (anche tra i restanti non vaccinati) e si riduce il rischio che si formino nuove varianti. La loro comparsa è infatti legata alla circolazione del coronavirus e non alla vaccinazione, che invece riduce il rischio di avere nuove varianti contro le quali i vaccini stessi potrebbero poi essere meno efficaci.

Le macro-cose andranno come possono andare. È complicato anche volersene preoccupare, in fondo, perché un poco non si sanno; un poco abbiamo vinto gli Europei; un poco facciamo affidamento per il futuro a due coppie di vecchi affidabili (Draghi/Mattarella e Chiellini/Bonucci), che ci hanno fatto financo riscoprire l’opportunità di aver studiato. E si sa, che chi caca dubbi senza compagnia, non è figlio di maria, non è figlio di Gesù e quando muore va laggiù. Donc, aspettiamo e vediamo.
D’altra parte, i vari menestrelli della politica hanno subito pronto l’antidoto per l’ansia latente per i contagi che risalgono in estate, senza che sia minimamente colpa del governo, questa volta; e anche per quella ancor più forte di trovarsi a breve con un sistema giustizia con tutti i problemi di prima, ma dotato di una coorte intorno ai giudici civili, per alleviarli dell’improbo compito di studiare i processi, e di processi penali in cui il senso di un istituto antico e liberale, come la prescrizione, già traviato da Cirelli, sarà definitivamente tradito da decadenze processuali che varranno a trasformare il nostro nel Bengodi dei delinquenti danarosi.
Guardare questi giullari all’opera, in effetti, conforta alquanto e dà certezza che forse finiremo male, ma sicuramente con il sorriso sulle labbra e senza preoccupazione che la dignità ed il decoro possano schiacciarci con la loro pesantezza e saremo dunque liberi di galleggiare nello stagno lutulento dei nostri mali.
Funziona, in effetti, come le telenovelas di Veronica Castro e si possono perdere puntate piene di colpi di scena, senza perdere il senso complessivo della trama.
Proviamo però a fare il riassunto.
Letta vuole Conte. Il loro è un amore che appare sincero, rinforzato dal comune odio per chi li ha, un tempo, sedotti (o, per Letta, sedati) e abbandonati: i due Matteo, entrambi pasciuti di panze da latrin lover latini. Eppure, non riescono a convolare a giuste nozze. Anzi, il vescovo che avrebbe dovuto celebrarne il matrimonio gli ha ficcato nel talama tutta l’allegra famiglia, impedendo la consumazione dell’impegno coniugale.
Anche le rispettive famiglie fanno storie… Babbo Grillo vorrebbe addirittura lo ius primae noctis, forse solo per far sapere al mondo che quello che esercita il figlio, con eccessiva leggerezza, anche documentale, non è reato.
E i Matteo, nel frattempo, birichineggiano… Uno, quello fiorentino, fa il dodda, andando assai oltre il Dalema dileggiato da Moretti e dicendo cose assai di destra; mostrandosi in vacanze da nababbo con le mutandone a righe; scrivendo libri da ex, che conoscendo il personaggio servono solo a dire – a chi sicuramente ci sarà – che lui, pur senza elettori, ha il potere di sapere ciò che non fa comodo che si sappia e che è disposto a dirlo, dandone prova a danno proprio del povero Conte, del quale il Matteo è sicuro dell’assenza futura. L’altro, quello longobardo, mostra di aver imparato dal suocero, che gli sgambetti si fanno agli amici, perché i nemici ci pensano da sé, e che val più la certezza di dare le carte, che l’euforia di potere di qualche transeunte sbornia elettorale.
Ma Giuseppe ed Enrico si amano.
Enrico è timorato di dio; Giuseppe è disponibile (o così dice) a sfidare anche il vescovo… entrambi però sanno che se non si sposeranno velocemente, altre coppie verranno invitate da Maria la Sanguinaria e dalla D’Urso.
Ma qui si aspetta la Provvidenza.