Il pragmatismo di Draghi emerge con sempre maggior forza: autonomia di approvvigionamento per i vaccini; aperture sempre più massive; dossier scottanti accelerati…
Temo, tuttavia, che, nel contesto in cui si esercita, nazionale ed europeo, finirà per tradursi in cinismo.
Cinismo tanto più crudele, perché non vi è discussione, né pare vi possa essere, sui valori, le persone e gli asset economici dei quali è stato accettato il sacrificio.
Cinismo tanto più preoccupante, perché esercitato con logiche vecchie, da vecchi che si riempiono la bocca del futuro dei giovani, ma non ne sono minimamente preoccupati, come mostra il fatto che siano indifferenti alle nuove tecnologie, al loro controllo, alla corsa allo spazio, vissuta ancora come nel ‘69, senza la consapevolezza che ormai è questione di business e non solo di geopolitica.
Bisognerebbe che i sedicenti leader politici avessero prima la forza e poi il coraggio di dare una visione.
Si azzuffano, invece, su luoghi comuni, su battaglie sacrosante, come quella sul ddl Zan, ma che non possono essere fondative di un nuovo patto nazionale… Forse perché sono anche loro figli di un popolo che, in fondo, quando non è novax, vuole sol correre a vaccinarsi, saltando la fila.
Cosa si può fare per invertire la rotta? Sperare… lavorare… sperare…

Nell’estate del 2020, abbiamo pensato che l’Europa si fosse desta; che, malgrado tutto, avesse deciso di mettere davanti a sé un futuro, per quanto faticoso, piuttosto che un grande passato, di cui gloriarsi e basta.
Poi, abbiamo scoperto che, mentre le bocche si riempivano di roboanti espressioni sulla next generation, le mani si affaticavano, in ogni paese del vecchio continente, intorno a vasi di marmellata, scoperchiati dalla pandemia, e scellerati negoziatori cercavan di risparmiare sui vaccini, per spendere in inutili sussidi.
Abbiamo scoperto, ancora, che dietro la collina (della retorica) c’è la notte crucca e assassina, che è disposta a svendere, per qualche fornitura di vetero-prodotti, l’impegno per i diritti umani, oltre che la chance di recuperare il gap tecnologico accumulato, in difetto.
Ieri, infine, abbiamo scoperto che un qualsiasi baffetto turco può farsi gioco di noi, perché siamo terrorizzati dall’idea che qualche migliaio di siriani bussi alle nostre porte, per rubarci, in spiccioli, quello che il baffetto pretende in blocco, e perché ci siamo affidati ad una manica di coglioni, fra i quali uno che riesce a pensare che uno sgarbo diplomatico all’Europa e una cafonata maschilista a danno di una donna possano essere giustificati dal richiamo al protocollo. Anche Angela Merkel, che il nostro provincialismo faceva percepire gigantesca, si sta mostrando nient’altro che una brava massaia, sorpresa dal tifone e dalla vecchiaia.
Il problema vero, però, è che i giovani han quarant’anni e nessuna voglia né di costruire, né di litigare, rannicchiati sul loro ombelico, nella speranza disperata che ciò che hanno accumulato i loro nonni e conservato i loro genitori possa bastare a far passare la nuttata, dopo la quale ci saranno bambini, statisticamente poco riferibili a loro.

I pm intercettano avvocati e giornalisti, senza nessun freno etico e civico e ignorando quelli giuridici.
La morte di più di quaranta utenti pagatori di un tratto autostradale diviene mera occasione per consentire, a chi ha omesso di manutenere quel medesimo tratto, di realizzare una plusvalenza mostruosa, cedendo la società a operatori finanziari che opereranno, tenutivi per statuto, secondo le stesse logiche di sfruttamento finanziario.
I criteri di scelta di chi deve essere privilegiato, temporalmente, nella campagna vaccinale sono confusi ed ambigui.
La dignità del lavoro viene svilita, per il sol fatto che si accetta ormai senza colpo ferire che la sua deprivazione possa essere compensata secondo logiche d’elemosina, che si chiamino ristoro, naspi o quant’altro.
La sacralità della giustizia viene venduta per i trenta denari dei diritti d’autore di un pamphlet scandalistico.
A un certo punto, sei obbligato a renderti conto che è una questione di valori.
Valori è un’espressione ambigua. Può avere un’accezione retorica. Può rinviare ad assets misurabili in denaro.
Oppure può indicare gli elementi fondativi dello stare insieme di una coppia, una famiglia, una collettività, uno stato, un gruppo di stati.
L’Occidente si è costruito attraverso lotte sanguinarie e fratricide che hanno ricoperto del richiamo retorico il riferimento a valori collettivi mirabili, forse i più alti elaborati dall’umanità: democrazia, libertà, stato di diritto, diritti fondamentali dell’uomo.
Ora si sta dissipando, perché vuole mascherare di pace l’ebetismo indotto dall’aver scelto di rivestire del richiamo retorico il continuo assillante rinvio alla dimensione neppure economica, ma mercantilista e finanziaria.
E non si dica che anche questa è retorica e luogo comune. Su questo crinale, stiamo consentendo il nostro suigenocidio… altri ce ne sono stati nella storia. Si ricordi, per tutti, l’immagine del tagliatore dell’ultimo albero dell’isola di Pasqua.

L’Italia e gli italiani, sia quelli stanziali sia quelli della nuova diaspora dei cervelli, non hanno alcuna alternativa plausibile ad un forte europeismo.
Bisogna però chiarirsi, senza false retoriche, su quale contenuto debba auspicarsi si riempia questo europeismo. L’europeismo, infatti, è come il debito: ce n’è di buono e di pessimo.
La vicenda della campagna vaccinale, i tentennamenti di Merkel, la litigiosità e il gretto egoismo di molti stati membri, la mancanza di una strategia geo-politica che non abbia le stigmate del puro mercantilismo, l’arretratezza anche dei campioni europei nei settori cruciali dello sviluppo (nano tecnologie; informatica; social-media; controllo dei big data; intelligenza artificiale), l’incapacità di creare un nuovo equilibrio di welfare stanno dimostrando, mi pare, che l’Europeismo delle bandiere blu stellate che garriscono stagliandosi su avveniristici (solo per la nostra sensibilità architettonica, un po’ retrò) grattacieli vitrei è un Europeismo incapace di pensare il futuro; soprattutto, un futuro di crescita solidale.
L’equilibrio sul quale è fondata la sua complessa architettura istituzionale è troppo delicato, troppo bisognoso della rarefazione e della sublimazione dei conflitti, tra regioni, tra interessi, tra culture, tra generazioni, per reggere alle crisi.
D’altra parte, la sua è una burocrazia di deracinés, senza radici, che inevitabilmente, dunque, sconta un eccesso di autoreferenzialità e di rigidità, che rende ardua ogni reazione adeguata alle emergenze, ogni capacità di adattamento ai cambiamenti.
Le strutture che non sanno affrontare le crisi, né reagire alle emergenze possono sopravvivere; possono, addirittura, consentire alle loro élites di prosperare. Non possono però giammai essere strumenti e luoghi di crescita.
Le parole d’ordine che lanciano, anche quelle più entusiasmanti, dalla green economy alla risilienza (che, in realtà, più che parola di speranza, come negli auspici di chi la usa, sta diventando ormai mezzo per la constatazione, attraverso però l’occultamento linguistico, del pessimo stato delle cose), finiscono per essere capi d’intestazione di nuovi protocolli, fini a sé stessi.
Bisognerebbe ritornare all’idea di un’Europa integrata, di europei e non di nazioni; un’Europa che metta a frutto le ricchezze che la storia e gli errori commessi nel lungo percorso della storia le hanno regalato; di un’Europa che sappia essere orgogliosa del proprio passato, per spiegare che, per molti versi, quel passato sarebbe ancora futuro in tante altre lande; soprattutto, per spiegare che non ci puoi essere futuro dell’umanità, senza tutela dell’uomo, dei diritti inalienabili (cioè invendibili e, dunque, senza prezzo) di cui ciascun appartenente alla specie è portatore.
Questa Europa, però, presuppone voglia di investimento e, dunque, di rischio.
Si diffonde però sempre di più l’idea che, per consentirci di vivere tranquillamente questo triste autunno della nostra cultura, si debba dare spazio al principio della massima prudenza.
E dunque sembriamo condannati ad un circolo vizioso, ingannati anche dall’ultimo beffardo vessillo: la Next Generation Ue, convinti, da un circuito meramente lessicale, che si lavori per il futuro, quando si sta solo cercando di consolidare un presente tombale.

Se non ho mal capito, l’Europa è in ritardo nella campagna vaccinale perché i suoi solerti rappresentanti hanno pensato bene di gestire la negoziazione con le big pharma con le logiche con le quali si dovrebbe acquistare la cancelleria per le pubbliche amministrazioni in regime di ordinaria gestione: risparmiando sul prezzo e senza eccedere in prenotazioni.
Ora, invece, sbranano i brandelli di produzione, litigandosi i lotti che sono loro destinati come le iene fanno con la preda (altrui).
Uniche eccezioni Germania e Danimarca, che non riescono peraltro a lanciare la loro campagna, per limiti organizzativi che non sanno superare e, forse, per la crisi di leadership della Merkel.
L’Europa è sempre più marginale nello scacchiere mondiale: conserva ancora enormi ricchezze, che si assottigliano, però, perché gestite senza prospettiva e con lo sguardo rivolto all’indietro o, forse peggio, con quello tristo dell’avaro che teme che la sua roba si consumi, ma per quello non la usa e così le fa perdere valore.
In questo contesto, l’Italia svetta, piegata su sé stessa, sbattuta dalle polemiche e dalle faide tra bande, comandata da una classe dirigente che non sa mettere in discussione i privilegi che ha accumulato e, per questo, per tutelarli, pretende spesso che, nel mondo del lavoro, come in quello della giustizia, nel sistema fiscale come in quello previdenziale, vengano ridotte ulteriormente le tutele, che si spacciano per costi e che, invece, ben comprese, sarebbero benzina nel motore della crescita, che presuppone sempre il funzionamento delle regole e degli ascensori sociali.
Purtroppo, però, non se ne può parlare, perché chi dovrebbe farlo è egli stesso portatori di privilegi, che possono e devono essere nascosti sotto lo strepito del luogo comune.
Luogo comune che sta del resto diventando la clava con la quale viene ottuso il buon senso, il senso critico, addirittura semplicemente il senso delle cose.

Il primo, faticoso, decreto ristori di Draghi non sbandiera nessuna misura rivoluzionaria.
I meccanismi di individuazione del bisogno e quelli per la sua soddisfazione sono sostanzialmente identici a quelli già inaugurati dal precedente, vituperato, governo.
La tecnica normativa è rimasta farraginosa e produttiva di testi di difficile, se non difficilissima, lettura, salvo che per una ristretta casta para-sacerdotale, di commercialisti ed avvocati, peraltro ormai di un sacerdozio invertito, animato da un fervido ateismo.
Addirittura, sono ricomparsi i condoni, senza vergogna di essere presentati per tali.
Credo, tuttavia, non sia ancora il momento di gettare la spugna e arrendersi disperati alla ineluttabilità del tutto cambia perché nulla cambi.
E non perché son calate le polemiche, anche giornalistiche, ma – non la si prenda per ironia – per come sono concepiti i condoni.
Il primo (cancellazione delle cartelle) più che un condono è una rimessione di debiti inesigibili e che, dunque, avrebbero costituito un costo di gestione, più che una posta attiva.
Il secondo un abile trompe l’oeil, per incentivare, attraverso lo specchio per le allodole del nomen, pagamenti spontanei e tempestivi di somme già dichiarate, ma che il folle sistema di sanzioni anti-deterrenti e rateazioni a babbo morto suggeriva di non versare o di non versare subito.
Chi ha il coraggio di approcciare così il tema del fisco, lasciando da parte i luoghi comuni, a favore di un sano pragmatismo, e riesce a farlo contenendo al minimo le reazioni urticanti, può far sperare che anche il gattopardo possa morire e che financo l’Italia possa prima o poi smettere di esser la patria delle grida, per diventare quella di provvedimenti sensati.

Pare che l’Italia, in generale, e la sua sinistra, in particolare, stiano ricostruendo la loro identità e addirittura la loro tensione identitaria verso il futuro, mediante un forte richiamo transtiberino.
Entrambi gli uomini che la provvidenza ha inviato – uno a raddrizzare le sorti del paese, l’altro a rabberciare i cocci del maggior partito (polo di aggregazione?) della sinistra- infatti, hanno citato Papa Francesco nei rispettivi discorsi di insediamento. E nessuno dei due lo ha fatto per mero ossequio formale. Anzi, tutti e due hanno utilizzato l’autorevolezza papale per rinforzare passaggi fondamentali della personale proiezione programmatica.
La circostanza non è di facile lettura.
Draghi e Letta sono dichiaratamente cattolici. Non sono però clericalisti.
Non hanno neanche bisogno di invocare la benevolenza delle gerarchie ecclesiastiche, perché sanno che ne godrebbero, come direbbe Totò, a prescindere.
Non possono pensare che, nel momento storico di massimo travaglio all’interno della Chiesa cattolica e della Chiesa italiana in particolare, il richiamo alle parole del Papa possa valere come strumento di pre-orientamento del mondo cattolico.
Non hanno neppure evocato l’insegnamento dell’erede di Pietro su parole d’ordine propriamente cattoliche, avendolo anzi fatto Draghi circa l’ambiente; Letta circa il patto intergenerazionale; insomma, su temi e valori universali e trasversali.
L’idea che mi sono fatto è che si tratti di un messaggio di marketing politico, secondo strategie di comunicazione che funzionano almeno dalla notte di Natale dell’800 d.c., ma che hanno la dimensione e costituiscono la prova di grande sensibilità culturale.
Papa Bergoglio è tanto Pop(e) quanto lo era Wojtyla. Sono però icone di due parti diverse e, forse, contrapposte dello stesso mondo.
Evocare quella bergogliana vuol dire, allora, chiarire, per Draghi, di non essere l’incarnazione di un potere finanziario da quinta colonna, alla Marcinkus, a coloro i quali – soli (perché Salvini non ha più le unghie e Berlusconi non ha interesse) – avrebbero potuto manifestare disagio, almeno culturale, per un suo strapotere, che effettivamente si sta mostrando incontrastato anche a livello mediatico, pur senza bisogno degli eccessi di Casalino; per Letta che se gli vedranno utilizzare uno stile democristiano (che ha subito rivestito di riformismo, ma che va tradotto in attenzione alle reti di potere e di relazione pre-esistenti), non potranno comunque rimproverargli sostanza di mediazione, perché del mondo cattolico prende e sposa solo il progressismo.
Mi conforta, tuttavia, che questo messaggio di marketing paia rivestire una sostanza perlomeno di chiarezza, in entrambi i casi.
Mi pare lo si possa dire per Draghi, che – lemme lemme, tomo tomo – ha avviato un’operazione di ri-articolazione del sistema di potere, che ha innescato il tracollo del grillismo e del franceschinismo (vero sconfitto delle dimissioni di Zingaretti) e la crisi del contismo, del dimaismo e del salvinismo; la riassegnazione delle ambasciate; un nuovo fermento intorno alla discussione (vera) sul sistema giustizia; nuove abitudini sul rispetto dell’architettura delle fonti normative (e dunque dei poteri) disegnata dalla costituzione.
Ho la sensazione che sarà così anche per Letta, che ha cominciato il suo percorso lanciando la sfida da parole ed espressioni e battaglie massimamente divisive e, quindi, identitarie, quali quella sullo ius soli; sull’equità fiscale; sul dialogo con i 5Stelle (che quando diventa dialogo presuppone diversità).
Mi auguro che questo inaspettato fenomeno produca analoghi smottamenti culturali e di chiarezza anche a destra o, per lo meno, in quella parte di quel mondo che si ispira ai valori liberali.
A ben pensare, infatti, tanta parte di quello che è accaduto in Italia negli ultimi vent’anni non è colpa della scarsa alternanza politica: la ricerca e la prassi dell’alternanza su quel piano hanno, anzi, generato una polarizzazione, che è sfociata progressivamente nello scontro tra i populismi.
È colpa di una ridottissima possibilità di alternativa culturale, che ha prodotto un conformismo sostanziale nel mondo della cultura, prima delle espressioni, poi dei pensieri, infine dei metodi.
E questa situazione non può essere risolta rilanciando parole d’ordine alla base, ma rivitalizzando il discorso intellettuale.
E a me pare ce ne sia tanto più bisogno, quando si ponga mente al fatto che la pandemia ha accentuato sì le diseguaglianze, ma anche chiarito che libertà e tutela dell’individuo non sono parole vuote di significato, neppure nel mondo ultraconnesso e ultra consumista che viviamo.

Pare che sul palcoscenico della politica italiana sia salita, questa volta di ritorno, un’altra personalità diffusamente stimata e seria.
Dunque, la scelta di Renzi, di aprire una crisi al buio, e quella di Matterella, di chiuderla di imperio, hanno in effetti avviato degli smottamenti, che sembrano sempre più inneschi di valanga.
Nessuno può ragionevolmente sapere cosa accadrà. Né se ciò che accadrà sarà nel verso del meglio o in quello opposto.
Forse rimane certo solo il termine del nuovo redde rationem: la scadenza della legislatura, se Draghi riesce davvero a mantenere la promessa di una vaccinazione massiva rapida, che allenti la tensione sul paese.
Mi pare di poter dire, però, che le parole di Letta, quelle parole cui lui stesso dice di attribuire enorme importanza, riechieggiano un vento di tormenta: non cercherà l’unità, idolo posticcio di una sinistra sempre divisa, forse per la paura indotta dal rischio di quel baratro concettuale generato dall’equivoco fondativo denunciato da Cacciari; cercherà la verità dei rapporti interni. Che non è proprio un invito alla serenità.
La provvidenza mette la nostra classe dirigente su percorsi che le sue iniziative non presagivano neanche e dà al paese il brivido intenso della serindipità…
Si cerca stabilità, si trovano costruttori, che han ben capito che in Italia nulla si può costruire, se prima non s’abbatte, perché la costruzione stratificata ha prodotto l’eterna bellezza di Roma, buona per le fotografie, ma che olezza di marcio.

Sono un grande estimatore di Enrico Letta.
Non capisco, però, il senso che potrebbe avere, per lui e per il partito, l’operazione che lo richiami alla segreteria del PD.
Non può essere una manovra per il recupero di consenso del partito nel paese, perché Letta non ha il carisma del leader (pur essendo, probabilmente, un ottimo statista) e viene comunque richiamato dai maggiorenti in lite tra di loro, non a furor di popolo.
Non può essere una manovra di potere personale di Letta, perché ne eserciterebbe molto di più sfruttando le potenzialità della sua attuale posizione, che accettando un Vietnam di caminetti.
Non può neanche essere una manovra di riposizionamento strategico del partito, perché non nasce da un’esigenza strategica, ma da una tragedia tattica.
Non può essere una manovra governista, perché più governista di come è ora il Pd non può essere e avrebbe, semmai, l’effetto di legittimare un progressivo raffreddamento tra Pd e mondo 5S, con pregiudizio per il governo.
Può avere un senso solo di revanche personale, per lui, e di mancanza di alternative, per il partito.
Penso, dunque, che fallirà. Cioè che Enrico Letta declinerà l’invito.
Salvo che non pensi di diventare il rifondatore della DC, togliendo il tappeto sotto i piedi a Renzi; negoziando il ruolo di leader dei cespugli Draghiani; isolando la ditta all’interno del pd; proponendosi come erede/nemesi di Berlusconi.
La scommessa sarebbe coraggiosa, ma non folle.
Ed è momento in cui può succedere di tutto.

Tra i vari discorsi sulla crisi del PD, mi ha colpito molto quello di Cacciari: la crisi nasce dall’equivoco sul quale è nato il partito, di voler conciliare una tradizione profondamente sociale e statalista con culture di management e pratiche economiche di stampo neo-liberista.
Io penso che la questione sia più banale. Il gruppo dirigente di quel partito ha perso la bussola e la capacità di rappresentanza.
Tuttavia, la riflessione è profonda.
Si è in effetti creato un humus culturale, un luogo comune della politica pensata, discussa e praticata, che esclude alla radice soluzioni di governo che non siano: democratiche di una democrazia rappresentativa; orientate alla tutela mercantile del mercato e allo stimolo della finanza; solidaristiche, ma solo nei limiti consentiti dalle rigidità di bilancio; nazionaliste, con una dichiarata vocazione al sovranazionalismo partigiano, ma non all’internazionalismo.
In questo contesto, rinforzato dai bastioni della soddisfazione dell’ex proletariato per i risultati di tutela ottenuti per le proprie consolidate posizioni, i partiti social-democratici non possono che abdicare anche ad ambizioni miglioriste, per limitarsi ad una gestione del potere, che inevitabilmente ne contraddice, peraltro, la tensione valoriale.
Si finisce, così, per essere di sinistra più per una questione di stile, di affezione ad alcuni stereotipi o per rifiuto dello stile altrui. Non si riesce però più a fare un discorso di sinistra, per lo meno nei paesi occidentali.
Un discorso di sinistra internazionalista presupporrebbe, invero, la disponibilità ad una seria rinegoziazione degli agi da appartenenza geografica ai quali proprio i più attenti ai temi della socialdemocrazia non vogliono e non possono, pour cause, rinunciare. Soprattutto, la capacità di spiegare a chi dovrebbe trarne giovamento, che – tutto sommato – a loro la storia ha riservato di non sperare nello sfolgorio del sole dell’avvenire, ma di accontentarsi di un meriggio autunnale, illuminato dal fuoco di un camino.
Un discorso di sinistra nazionalista, oltre alla contraddizione in termini, comporterebbe la disponibilità a entrare in conflitto con le classi che sono sentimentalmente più prossime allo stereotipo della sinistra, per denunciarne la condizione di nuove classi privilegiate e la capacità di spiegare a chi patisce l’emarginazione nascente dalla globalizzazione perché deve accettarlo, in nome di un egalitarismo internazionale, negato dai fatti degli estranei e degli intranei.
Rimarrebbe l’ipotesi di un discorso seriamente ambientalista, che deve però superare le forche caudine del governismo di sinistra, per la scarsa abitudine mentale a pensare che ecologia ed economia sono, non solo etimologicamente, entrambi ragionamenti, uno in forma dialogica, l’altro, ponderale e metrica, intorno ad un unico bene.
Non so come andrà a finire.
Sarebbe bello cominciare a discuterne.