Ormai da più di un anno l’Italia si dimena tra aperture e chiusure, zone dal colore caldo a seconda dell’emergenza, polemiche di ogni tipo, governi che cadono e governi che nascono, senza che si riesca a vedere la tanto attesa luce al di là del tunnel. E mentre ci si impelaga in ritardi e disorganizzazioni sul fronte vaccino o ci si scandalizza per alcune scelte poco coerenti come l’apertura delle discoteche nella scorsa estate, esiste una categoria silenziosa di lavoratori che non è mai ripartita dall’inizio di questa pandemia: i lavoratori del mondo dello spettacolo. Non si parla dei grandi nomi della musica, del cinema o del teatro italiano che hanno abbastanza risparmi per sopravvivere a lungo, ma di tutti coloro che vivono dietro un palcoscenico, il muro portante di ogni spettacolo, stimato intorno ai 570 mila operatori di cui 250 mila addetti al settore dei live. Il 10 novembre Vincenzo Spera, il presidente di Assomusica, affermava in un’intervista su Open:

«La crisi è totale e i cali di fatturato si attestano in torno al 97% a fine estate. Ma con la chiusura prorogata a tutto il 2020, il calo sarà ancora più forte».

Sono passati 4 mesi dalla fine del 2020 e tutt’oggi poco è cambiato sul fronte legislativo, a parte un disegno di legge depositato in parlamento nel mese di gennaio dal senatore del Pd Francesco Verducci che si aggiungerebbe al Fus (Fondo Unico dello Spettacolo). Questa proposta si incarica di versare un reddito ai lavoratori nell’attesa di condizioni idonee per far ripartire l’industria. E per far ripartire l’industria? Nonostante i tanti scioperi di questa categoria continuino a susseguirsi, celebre l’episodio dei 500 bauli in Duomo a Milano nel novembre scorso, non c’è nessun segnale di riapertura al momento.

Le poche speranze vengono come sempre dall’estero: il 20 marzo si è tenuto il festival di Lowlands di Biddinghuizen in Olanda, a cui hanno partecipato 1500 spettatori. Tutti hanno dovuto sottoporsi a un test antigenico 48 ore prima dell’evento mentre sul posto sono stati fatti 150 tamponi a campione, con i 26 risultati positivi bloccati all’ingresso. Un esperimento analogo si è svolto al Palau di San Jordi di Barcellona, dove si è tenuto un concerto a cui hanno preso parte 5000 persone, dopo essersi sottoposte al test antigenico ed essere risultate negative. È sicuramente un punto di svolta, ma al quale bisogna dare continuità in attesa di progressi con la vaccinazione. Purtroppo però, se si analizza complessivamente la situazione in Italia, viene difficile credere che si possa dare seguito a questa svolta. I cinema, i teatri, come tutti gli altri luoghi di cultura, sono stati i primi a subire le restrizioni nella scorsa primavera, come se fossero i principali centri di contagio del virus e, durante tutti questi mesi, la ripartenza di un settore così ampio e importante non è mai stata considerata una priorità dai gestori della pandemia. Sicuramente la priorità assoluta è e deve essere la campagna vaccinale, e anche in questo campo i risultati non sono dei migliori (in conformità con l’intera Unione Europea), ma è possibile che non si prendano nemmeno in considerazione esperimenti del genere, a differenza di altri Stati per nulla covid-free? Il festival svoltosi in Olanda è divenuto attuabile grazie a una stretta collaborazione del governo olandese con gli operatori musicali in un’atmosfera colma di pragmatismo e voglia di ritornare alla normalità, mentre in Italia si ha l’ennesima dimostrazione di come la cultura venga demonizzata e considerata un bene trascurabile, non di prima necessità. Nulla di più distante dal vero. Non ci sarà mai una ripartenza della vita se l’arte non va di pari passo.

“L’arte non si può separare dalla vita. È l’espressione della più grande necessità della quale la vita è capace.”

Robert Henri

Umberto Eco, nel prologo del Pendolo di Focault, prende in giro i complottisti con queste parole: “l’altezza della piramide di Cheope è uguale alla radice quadrata del numero dato dalla superficie di ciascuno dei lati. […] Prenda l’altezza del pyramidion, la moltiplichi per l’altezza della piramide intera, moltiplichi il tutto per dieci alla quinta e abbiamo la lunghezza della circonferenza equatoriale. Non solo, se prende il perimetro della base e lo moltiplica per ventiquattro alla terza diviso due, ha il raggio medio della terra. In più l’area coperta dalla base della piramide moltiplicata per 96 per dieci all’ottava dà centonovantasei milioni ottocentodiecimila miglia quadrate che corrispondono alla superficie terrestre.” “Signori”, disse, “invito loro ad andare a misurare quel chiosco. Vedranno che la lunghezza del ripiano è di 149 centimetri, vale a dire un centomiliardesimo della distanza Terra-Sole. L’altezza posteriore divisa per la larghezza della finestra fa 176/56 = 3,14. L’altezza anteriore è di 19 decimetri e cioè pari al numero di anni del ciclo lunare greco. La somma delle altezze dei due spigoli anteriori e dei due spigoli posteriori fa 190 x 2 + 176 x 2 =732, che è la data della vittoria di Poitiers. Lo spessore del ripiano è di 3,10 centimetri e la larghezza della cornice della finestra di 8,8 centimetri. Sostituendo ai numeri interi la corrispondente lettera alfabetica avremo C10 H8, che è la formula della naftalina”.

Tutto vero, ma quando capita una coincidenza, ci suona sempre molto strana e ci porta a riflessioni più o meno contorte. L’altro giorno una mia cugina di fede molto salda mi ha invitato a vedere un filmato su Youtube sulle apparizioni di Medjugorje. Vista la sua insistenza, alla fine l’ho visto. Ho poi commentato con mia moglie che non credevo nelle apparizioni della Madonna e non credevo neanche nei segreti. Perché mai la Madonna o Dio dovrebbero usare la profezia per parlarci? Non è né logico né pratico. Poi perché usare delle persone qualunque come i veggenti di Medjugorje. E ho concluso con molta foga dicendo che si può discutere se Dio esista o meno, ma non si può suppore un Dio non razionale. E quindi le profezie di Medjugorje per me, non potevano che essere una cagata pazzesca (per usare l’alto linguaggio fantozziano).

La cosa sembrava finita così, ma la Domenica delle Palme una mia vecchia zia mi ha chiesto di procurarmi l’ulivo benedetto. Sono andato a messa ma ho scoperto che, causa Covid, il prete non lo distribuiva. Ho allora chiesto a un mio studente di dottorato che vive presso una comunità di Focolarini se me lo poteva procurare. Mi ha detto che, causa zona rossa in Toscana, me lo poteva portare solo quando saremmo diventati gialli, ossia fra circa 40 giorni. Ho riflettuto che nella Bibbia c’è un personaggio che riceve un ramoscello di ulivo dopo circa 40 giorni. E’ Noè e lo riceve portato da una colomba come simbolo della fine del diluvio. Ho immediatamente interpretato tutta la vicenda come una profezia che fra 40 giorni la pandemia finirà e si ritornerà la vita normale.

Ho riflettuto che ci sono 3 serie ragioni che giocano a favore di questa interpretazione escatologica:

  1. Ho le palle piene di questo lockdown e non vedo l’ora che finisca, quindi, a questo fine, accetto anche una profezia
  2. Se Dio esiste e ha il senso dell’humour (cosa che ritengo molto probabile leggendo sia la Bibbia che il Corano) si deve essere molto divertito a regalarmi una profezia dopo la mia sparata sull’idiozia di credere nelle profezie dei veggenti. Dio (ed Allah) amano umiliare e confondere i pseudo-sapienti che pensano di sapere tutto. Gesù confonde i dotti farisei, Allah umilia Maometto con la vicenda degli uomini che avevano dormito per centinaia di anni in una caverna.
  3. Fra 40 giorni arriva l’estate, saranno stati vaccinati altri 12 milioni di Italiani e saranno disponibili gli anticorpi monoclonali per terapia. Quindi non è improbabile che fra 40 giorni l’incubo sarà veramente finito.

In conclusione, sono disponibile a dichiararmi pubblicamente sconfitto dal potere delle profezie purché si faccia ritorno fra 40 giorni alla vita normale.

L’espressione ‘fake news’ è stata designata come ‘espressione dell’anno’ nel 2017 secondo il dizionario Collins e ha iniziato ad essere utilizzata in modo frequente soprattutto durante la campagna presidenziale di Donald Trump del 2016. L’obiettivo di una fake news non è la mera fornitura di una notizia falsa al lettore, ma la capacità di influenzare il lettore al punto da spingerlo a condividerla in modo spontaneo e partecipato. La pandemia da Covid-19 non ha fatto altro che spostare interamente l’attenzione dei media sull’emergenza sanitaria, argomento bersagliato dalla disinformazione. E’ così che insieme alla pandemia si è arrivati all’infodemia, ovvero un neologismo formato dai termini ‘informazione’ ed ‘epidemia’, tratto da un calco dall’inglese (infodemic).

La ‘suractualité’

Il linguista francese Patrick Charaudeau ha constatato che il clima di angoscia e di paura vissuto dalla popolazione mondiale è quello ideale alla formazione della ‘suractualité’, ossia una realtà fittizia, strumentalizzata e deformata. Esistono due processi linguistici in grado di creare la cosiddetta ‘suractualité’: il processo di ripetizione e quello di focalizzazione. Nel processo di ripetizione la notizia in questione passa da un giornale ad un altro, da un notiziario all’altro in modo univoco: in questo modo viene eliminato qualunque spirito critico del lettore. Nel processo di focalizzazione la notizia prende il sopravvento sulle altre, invade l’intero campo d’informazione dando l’impressione di essere la sola degna di nota; chiunque può convenire sul fatto che il Covid-19 è il trend topic dei notiziari da un anno a questa parte.

Il web a servizio dell’infodemia: le ‘cybertruppe’

Quante volte sul web abbiamo letto alcune teorie complottiste che parlavano di antenne 5g responsabili della propagazione del Coronavirus, oppure della creazione ad hoc del virus in laboratorio come arma di distruzione di massa voluta dal fantomatico ‘Nuovo Ordine Mondiale’. Il fattore comune di queste ‘bufale’ è l’accusa verso un’entità misteriosa, un’organizzazione superiore che avrebbe il controllo dell’intero pianeta. Bene, la propagazione di queste teorie è resa possibile grazie alle ‘cybertruppe’: i ‘bot’ e i ‘troll’. Se il discorso su questi ultimi appare più semplice, (il troll è un utente che, grazie a commenti provocatori e divisori genera conflitti e divisioni all’interno delle comunità digitali) l’analisi sui bot è molto più complessa. Il bot è un programma che svolge compiti automatici su Internet, simulando il comportamento di un utente umano. In genere, una serie di bot condividono lo stesso e identico messaggio in varie comunità digitali, gruppi o chat al fine di poterlo propagare il più possibile. Il fatto sconcertante è la loro facilissima reperibilità, infatti sul dark web, a soli 100 dollari si possono acquistare più di 500 bot associati ad un numero telefonico vero. Gli effetti peggiori della campagna di disinformazione attuata dei bot si sono visti in Iran, dove 44 persone sono decedute dopo aver ingerito dell’alcool etilico in modo da contrastare il Covid.

L’Italia e gli italiani, sia quelli stanziali sia quelli della nuova diaspora dei cervelli, non hanno alcuna alternativa plausibile ad un forte europeismo.
Bisogna però chiarirsi, senza false retoriche, su quale contenuto debba auspicarsi si riempia questo europeismo. L’europeismo, infatti, è come il debito: ce n’è di buono e di pessimo.
La vicenda della campagna vaccinale, i tentennamenti di Merkel, la litigiosità e il gretto egoismo di molti stati membri, la mancanza di una strategia geo-politica che non abbia le stigmate del puro mercantilismo, l’arretratezza anche dei campioni europei nei settori cruciali dello sviluppo (nano tecnologie; informatica; social-media; controllo dei big data; intelligenza artificiale), l’incapacità di creare un nuovo equilibrio di welfare stanno dimostrando, mi pare, che l’Europeismo delle bandiere blu stellate che garriscono stagliandosi su avveniristici (solo per la nostra sensibilità architettonica, un po’ retrò) grattacieli vitrei è un Europeismo incapace di pensare il futuro; soprattutto, un futuro di crescita solidale.
L’equilibrio sul quale è fondata la sua complessa architettura istituzionale è troppo delicato, troppo bisognoso della rarefazione e della sublimazione dei conflitti, tra regioni, tra interessi, tra culture, tra generazioni, per reggere alle crisi.
D’altra parte, la sua è una burocrazia di deracinés, senza radici, che inevitabilmente, dunque, sconta un eccesso di autoreferenzialità e di rigidità, che rende ardua ogni reazione adeguata alle emergenze, ogni capacità di adattamento ai cambiamenti.
Le strutture che non sanno affrontare le crisi, né reagire alle emergenze possono sopravvivere; possono, addirittura, consentire alle loro élites di prosperare. Non possono però giammai essere strumenti e luoghi di crescita.
Le parole d’ordine che lanciano, anche quelle più entusiasmanti, dalla green economy alla risilienza (che, in realtà, più che parola di speranza, come negli auspici di chi la usa, sta diventando ormai mezzo per la constatazione, attraverso però l’occultamento linguistico, del pessimo stato delle cose), finiscono per essere capi d’intestazione di nuovi protocolli, fini a sé stessi.
Bisognerebbe ritornare all’idea di un’Europa integrata, di europei e non di nazioni; un’Europa che metta a frutto le ricchezze che la storia e gli errori commessi nel lungo percorso della storia le hanno regalato; di un’Europa che sappia essere orgogliosa del proprio passato, per spiegare che, per molti versi, quel passato sarebbe ancora futuro in tante altre lande; soprattutto, per spiegare che non ci puoi essere futuro dell’umanità, senza tutela dell’uomo, dei diritti inalienabili (cioè invendibili e, dunque, senza prezzo) di cui ciascun appartenente alla specie è portatore.
Questa Europa, però, presuppone voglia di investimento e, dunque, di rischio.
Si diffonde però sempre di più l’idea che, per consentirci di vivere tranquillamente questo triste autunno della nostra cultura, si debba dare spazio al principio della massima prudenza.
E dunque sembriamo condannati ad un circolo vizioso, ingannati anche dall’ultimo beffardo vessillo: la Next Generation Ue, convinti, da un circuito meramente lessicale, che si lavori per il futuro, quando si sta solo cercando di consolidare un presente tombale.

Se non ho mal capito, l’Europa è in ritardo nella campagna vaccinale perché i suoi solerti rappresentanti hanno pensato bene di gestire la negoziazione con le big pharma con le logiche con le quali si dovrebbe acquistare la cancelleria per le pubbliche amministrazioni in regime di ordinaria gestione: risparmiando sul prezzo e senza eccedere in prenotazioni.
Ora, invece, sbranano i brandelli di produzione, litigandosi i lotti che sono loro destinati come le iene fanno con la preda (altrui).
Uniche eccezioni Germania e Danimarca, che non riescono peraltro a lanciare la loro campagna, per limiti organizzativi che non sanno superare e, forse, per la crisi di leadership della Merkel.
L’Europa è sempre più marginale nello scacchiere mondiale: conserva ancora enormi ricchezze, che si assottigliano, però, perché gestite senza prospettiva e con lo sguardo rivolto all’indietro o, forse peggio, con quello tristo dell’avaro che teme che la sua roba si consumi, ma per quello non la usa e così le fa perdere valore.
In questo contesto, l’Italia svetta, piegata su sé stessa, sbattuta dalle polemiche e dalle faide tra bande, comandata da una classe dirigente che non sa mettere in discussione i privilegi che ha accumulato e, per questo, per tutelarli, pretende spesso che, nel mondo del lavoro, come in quello della giustizia, nel sistema fiscale come in quello previdenziale, vengano ridotte ulteriormente le tutele, che si spacciano per costi e che, invece, ben comprese, sarebbero benzina nel motore della crescita, che presuppone sempre il funzionamento delle regole e degli ascensori sociali.
Purtroppo, però, non se ne può parlare, perché chi dovrebbe farlo è egli stesso portatori di privilegi, che possono e devono essere nascosti sotto lo strepito del luogo comune.
Luogo comune che sta del resto diventando la clava con la quale viene ottuso il buon senso, il senso critico, addirittura semplicemente il senso delle cose.

“Metà e metà”; “Tuttocampista”; “Né carne né pesce”; “Può fare diversi ruoli”. Sono tutte sfumature che si generano intorno a quella particolare categoria di calciatori che hanno nelle proprie corde una certa duttilità tattica. Ma fino a che punto questa caratteristica può essere un utile vantaggio?

KULU C’E’? – Quando si prova ad imbastire un ragionamento sulle tante difficoltà riscontrate dalla Juventus nella costruzione del gioco abbiamo più volte ricordato l’importanza della conoscenza capillare delle caratteristiche dei calciatori. Se una punta attacca o meno la profondità, se un centrocampista ha tempi di inserimento, se l’attaccante preferisce giocare spalle alla porta o agire più defilato sull’esterno fa tutta la differenza di questo mondo. Dejan Kulusevki ha palesato più di una difficoltà nel trovare una sua mattonella di campo prediletta, complice anche la forzatura tattica che l’assenza di Morata ha costretto Pirlo a operare. A ben vedere, però, il giovane nazionale svedese rientra in quella categoria di calciatori per i quali definire rigidi confini tattici può essere controproducente. Se da un lato, l’impiego di Kulusevski offre un range abbastanza ampio di soluzioni tattiche, dall’altro tale opportunità pare aver costituito un grosso limite alla piena efficacia della manovra di Madama. Mai lo svedese ha convinto nei ruoli che gli sono stati assegnati. L’impressione è quella di un girovago errabondo per il quale non sono chiare né una posizione né una meta. La soluzione potrebbe essere il ritorno alle origini. L’ex Atalanta possiede grandi doti fisiche ed un talento tecnico notevole. A tutto ciò va aggiunta la sua capacità di smarcarsi tra le linee interpretando il ruolo di mezz’ala come faceva nella Primavera nerazzurra.

POCA JOYA – Un’analisi sui giocatori “ibridi” non può non menzionare il capofila della categoria, quel Paulo Dybala la cui collocazione in campo ha stimolato più volte le meningi di chi lo ha allenato, Non quelle di Andrea Pirlo, che in verità ben poco ha potuto contare sulle prestazioni dell’argentino in questa stagione e conta di recuperarlo per il derby. Sicuramente più di una domanda si sarà posto Massimiliano Allegri nel pensare ad una Juventus che traesse giovamento dalle giocate del furetto ex Palermo. Che la questione sia stata tutt’altro che banale da risolvere è intuibile per almeno un paio di ragioni. La prima è il rendimento in flessione di Dybala dal punto di vista delle realizzazioni. Una flessione che ha avuto origine nell’ultimo anno di gestione del tecnico livornese, per poi avere una lieve risalita con la guida di Sarri, fino alle scarne apparizioni dell’era Pirlo. In secondo luogo la differenza sostanziale che giocare in un club blasonato non è come farlo per un club di fascia medio-bassa. Per dirla con le recenti parole di Allegri: “Se vieni alla Juventus, dato che giochiamo dentro l’area, tu farai fatica”. In attesa che Pirlo possa averlo a disposizione e inserirlo nello scacchiere dell’attacco bianconero (Come? Con quali compiti?), arrivano le sibilline parole di Pavel Nedved che con una mano lega l’attaccante argentino alla Juventus, e con l’altra lo colloca sul mercato, valutando ogni possibile destinazione.

Il primo, faticoso, decreto ristori di Draghi non sbandiera nessuna misura rivoluzionaria.
I meccanismi di individuazione del bisogno e quelli per la sua soddisfazione sono sostanzialmente identici a quelli già inaugurati dal precedente, vituperato, governo.
La tecnica normativa è rimasta farraginosa e produttiva di testi di difficile, se non difficilissima, lettura, salvo che per una ristretta casta para-sacerdotale, di commercialisti ed avvocati, peraltro ormai di un sacerdozio invertito, animato da un fervido ateismo.
Addirittura, sono ricomparsi i condoni, senza vergogna di essere presentati per tali.
Credo, tuttavia, non sia ancora il momento di gettare la spugna e arrendersi disperati alla ineluttabilità del tutto cambia perché nulla cambi.
E non perché son calate le polemiche, anche giornalistiche, ma – non la si prenda per ironia – per come sono concepiti i condoni.
Il primo (cancellazione delle cartelle) più che un condono è una rimessione di debiti inesigibili e che, dunque, avrebbero costituito un costo di gestione, più che una posta attiva.
Il secondo un abile trompe l’oeil, per incentivare, attraverso lo specchio per le allodole del nomen, pagamenti spontanei e tempestivi di somme già dichiarate, ma che il folle sistema di sanzioni anti-deterrenti e rateazioni a babbo morto suggeriva di non versare o di non versare subito.
Chi ha il coraggio di approcciare così il tema del fisco, lasciando da parte i luoghi comuni, a favore di un sano pragmatismo, e riesce a farlo contenendo al minimo le reazioni urticanti, può far sperare che anche il gattopardo possa morire e che financo l’Italia possa prima o poi smettere di esser la patria delle grida, per diventare quella di provvedimenti sensati.

Approvato il testo del Dl Sostegni; il Premier dichiara: “Questo è un anno in cui non si chiedono soldi, si danno”.

SOSTEGNI – Al termine del Consiglio dei Ministri, nella conferenza stampa dopo l’approvazione del Dl Sostegni, Mario Draghi ha specificato che questo decreto è, seppur una risposta parziale, il massimo che si è potuto fare, cercando di rispondere significativamente alla povertà e ai bisogni di imprese e lavoratori. Per chi ne ha fatto domanda, i pagamenti partiranno l’8 aprile e, se tutto va come da previsione, nello stesso mese entreranno nell’economia 11 miliardi. Draghi ha inoltre spiegato che l’obiettivo principale è quello di accompagnare le imprese e i lavoratori nel percorso di uscita dalla pandemia. Nel decreto Sostegni dunque è stato inserita la Cancellazione delle vecchie cartelle esattoriali fino a 5mila euro tra il 2000 e il 2010 per chi rientra in un tetto di reddito di 30mila euro.

CARTELLE ESATTORIALI E VACCINAZIONI – Sulla questione cartelle, un’accumulo di milioni e milioni di cartelle che non si possono esigere è la dimostrazione che qualcosa non ha funzionato, pertanto nel Dl ci sarà anche una parte che prevede una piccola riforma della riscossione, del controllo e dello scarico. Lo stralcio delle cartelle prevede un importo contenuto di 5.000 euro, un condono limitato ad una piccola platea, sotto un certo reddito, che permetterà comunque all’amministrazione di perseguire la lotta all’evasione in modo più efficiente. Rispondendo ad una domanda, Draghi ha parlato della campagna vaccinale che ha subito un rallentamento ma, a suo avviso non disastroso, asserendo che l’obiettivo è quello di arrivare a 500 mila dosi a metà aprile, aumentando ancora a giugno. Ha concluso la conferenza dicendo che la scuola sarà la prima attività a riaprire, non appena la situazione dei contagi lo permetterà. 

Il progetto dura 2 mesi, è rinnovabile, e prevede la fornitura di un tampone gratuito al mese a persona per studenti, familiari e personale scolastico.

Le farmacie registreranno l’esito sul portale regionale per consentire il necessario tracciamento dei positivi. L’accordo con le organizzazioni sindacali delle farmacie consente di offrire il test antigenico rapido anche al resto della popolazione a un prezzo massimo di 22 euro, e per il test sierologico (mirato a rilevare la presenza di anticorpi IgG e IgM) a 20 euro, contribuendo così a favorire il più possibile lo screening tra i cittadini. L’elenco delle farmacie aderenti sarà aggiornato ogni settimana, in relazione alle adesioni che saranno formalmente comunicate al settore competente della Regione Toscana.

Queste, per ora, le quattro farmacie che offrono il servizio su Firenze (su poco più di 100 regionali):

  • Farmacia Moderna – viale Don Minzoni – Firenze
  • Farmacia Santa Maria Peretola – via Pistoiese 11 – Firenze
  • Farmacia Donatello – via degli Artisti 1/A – Firenze
  • Farmacia d’Ognissanti – borgo Ognissanti 44/48R – Firenze

Quali le strategie per ritornare alla normalità?
E’ ormai più di un anno che la pandemia è iniziata. Ne sappiamo molto di più che all’inizio: il Covid è di tipo influenzale, quindi quasi scompare d’estate. Se uno si ammala di Covid e ne guarisce, gli anticorpi generati lo difendono in media per 6 mesi. Le politiche di distanziamento stanno inoltre selezionando forme di Covid sempre più contagiose. La ricerca medica ha sviluppato, a tempo di record, numerosi vaccini, ma il virus, come tutti quelli influenzali, si modifica molto rapidamente e richiederà la continua realizzazione di nuovi vaccini capaci di sconfiggere le varianti che via via si presenteranno. L’Europa si è resa conto di essere sola, sedotta ed abbandonata dagli US. Il nuovo Presidente Biden, de facto, sta proseguendo nella strategia di Trump, l“America First”. Gli US si sono infatti accaparrati tutti i vaccini e li distribuiranno in Europa solo quando, fra qualche mese, sarà terminata la campagna di vaccinazione di loro. Meglio dell’Eropa hanno fatto sia Uk ed Israele che sono riusciti a organizzare una campagna di vaccinazione efficiente. La UE ha dimostrato di essere un nano politicamente parlando. Non ha la forza di farsi dare un po’ di vaccini dagli US, non ha la forza di tenere in loco la produzione vaccinale e non ha la forza politica di staccarsi dagli US per chiedere alla Russia di fornirle un po’ di vaccini. Anzi, si assiste sgomenti alle pesanti accuse di Biden rivolte verso Putin e verso la Russia. Non è bene che la Russia venga spinta fra le braccia della Cina. Anche perché questa situazione molto critica è in contemporanea con la perdita di valori fondanti, con la scristianizzazione ormai inarrestabile del vecchio Continente, con la crisi economica e con le evidenti difficoltà. Sono in crisi i nostri ideali democratici che ci rendono forti.
Che fare? La strategia che i Governi Europei sembrano vogliono perseguire mi sembra poco proficua. Avremo i vaccini in quantità solo fra qualche mese. Ha senso fare una vaccinazione di massa a maggio quando il virus, se ripetesse il pattern dello scorso anno, dovrebbe aver perso totalmente vigore? L’ombrello vaccinale dovrebbe durare 6 mesi-un anno. Perché sprecare la protezione vaccinale durante i mesi estivi? Non sarebbe sensato programmare la campagna vaccinale a settembre-ottobre in modo da avere la protezione massima proprio durante i mesi autunnali ed invernali, quelli di maggiore contagio? E poi, visto che i vaccini dovrebbero immunizzarci per circa un anno, quando fra 12 mesi inizieranno a perdere efficacia, che si fa? Si ritorna a vaccinare di nuovo 60 milioni d’italiani? E questo da ripetere ogni anno? Già adesso vaccinare tutti gli Italiani sembra del tutto pazzesco. Figuriamoci l’impatto che avremmo se programmassimo una vaccinazione di massa ogni anno… Insomma non c’è dubbio alcuno che la strategia della vaccinazione di massa di tutta la popolazione italiana forse la possiamo fare una volta, non di certo ogni anno. L’attuale politica di contenimento della pandemia basata sulle vaccinazioni di massa è, almeno a lungo termine, quasi del tutto impraticabile.
Neanche l’opposto è praticabile. Non vaccinare nessuno e lasciare che la pandemia colga il suo tristo tributo non sono strategie adatte a un popolo buonista come il nostro. Possono farlo gli svedesi, ma noi no. E’ contro il nostro DNA.
Rimane un’unica possibilità. Trattare il Covid come se fosse una normale influenza. La strategia da seguire sarebbe quindi quella vaccinare ogni anno solo gli anziani e puntare sulle terapie (anticorpi monoclonali?) più che sui vaccini per proteggere la restante popolazione non vaccinata. Puntare sullo sviluppo di terapie curative significherebbe per l’Europa dimostrare di avere coraggio e personalità perché mostrerebbe di essere capace di elaborare strategie indipendenti da quella degli US. Significherebbe inoltre infondere la speranza nella popolazione europea che il declino non sia inarrestabile. Possiamo ancora giocare un ruolo importante nel mondo. Non siamo infatti una espressione geografica, siamo una potenza non solo economica che ha il diritto/dovere di giocare un ruolo nello scacchiere internazionale.